REPORTAGE. Taranto, scuole chiuse fino alla fine dell’anno scolastico e valori di diossina e ozono fuori controllo. L’ultimatum del sindaco, che minaccia la chiusura dell’ex Ilva. Ma è assente giustificato. Siamo andati tra i residenti del quartiere Tamburi per “respirare” con loro quell’aria e quelle novità
di Rosaria Scialpi
Sommario
MICHELA, “VOGLIO INSEGNARE AI MIEI FIGLI IL CORAGGIO, MA LONTANO DA QUI”
ALESSIO: “QUI E’ TUTTO PERICOLOSO, HO VISTO AMICI E FIGLI DI AMICI MORIRE”
L’ULTIMATUM DEL SINDACO? ARIA “CALDA”
MARRAFFA: “I MIEI PAZIENTI MI DICONO CHE E’ MEGLIO MORIRE DI TUMORE CHE DI FAME”
//TARANTO// Il quartiere Tamburi di Taranto sembra non poter trovare pace. Dopo la prima ordinanza di chiusura cautelare e momentanea dei plessi Deledda e De Carolis, piomba un’altra decisione e cioè il prolungamento del provvedimento fino al termine dell’anno scolastico.
Una decisione che fa crollare le speranze, per quanto ormai deboli, dei genitori del quartiere.
“Il sindaco ci ha tolto tutte le lacrime che avevamo in corpo, ormai non possiamo nemmeno più piangere!”, dice una mamma, stringendo i pugni per darsi forza.
MICHELA, “VOGLIO INSEGNARE AI MIEI FIGLI IL CORAGGIO, MA LONTANO DA QUI”
Un’altra mamma, Michela, una donna con gli occhi spenti e stanchi, sottolinea quanto questo provvedimento mini anche la compattezza familiare: “Mi ritrovo a dover preparare il pranzo a uno dei miei due figli alle dodici e all’altro alle quattordici. Il primo, infatti, ha il turno scolastico pomeridiano e quindi deve pranzare presto, sia per arrivare a scuola in orario sia perché è giusto che abbia il tempo di digerire ciò che ha mangiato.
L’altro mio figlio, invece, esce da scuola all’una e mezza, il tempo di arrivare a casa, mettere l’acqua della pasta e finire di preparare il suo pranzo e già si sono fatte le due/ due e mezza, e poi c’è il terzo round quando torna mio marito e io e lui pranziamo. Io sono una casalinga e, in un certo senso, posso permettermi tutto questo, ma come possono due genitori che lavorano reggere questo ritmo? E se entrambi lavorano, il bambino che non va a scuola la mattina con chi resta?
Non abbiamo tutti i nonni vicino o la disponibilità economica per poter pagare una babysitter e magari quei soldi guadagnati dai due genitori servono a malapena ad arrivare a fine mese, ma il sindaco ha le tasche piene e questi due conti non se li fa. Loro (i politici) non si accorgono nemmeno che questa scelta ci porta a rovinare l’unità della famiglia, che uno fatica tanto a trovare e poi arrivano loro e va tutto all’aria. Il pranzo, soprattutto nelle famiglie di operai, è un momento di raccolta, forse l’unico, ma questo oggi viene meno perché i turni scolastici tendono a dividere. Un applauso al sindaco e alla sua giunta, davvero! Sarei volentieri disposta a mandare i miei piccoli via da qui, se ne avessi la possibilità. Se Melucci si degna di mettere un servizio navetta per la scuola e a sue spese, i miei figli sono i primi ad andare a scuola lontano”.
Michela finisce di parlare e si schiarisce la voce, che le sta venendo a mancare. Lo sguardo fisso a terra, cerca di nascondere l’espressione corrucciata, non vuole che il bambino più piccolo che è con lei la veda triste.
“Voglio insegnare ai miei figli a non arrendersi, a combattere per quello che ritengono giusto, anche se sono stanchi”
“Voglio che apprezzino la scuola e comprendano quanto questa sia essenziale nella vita, quanto possa essere un modo per costruirsi una vita migliore, una vita senza Ilva e senza mostri che ti ammazzano”, mi dice.
Le ultime parole di Michela riflettono perfettamente lo spirito di una parte del quartiere Tamburi. Una porzione del quartiere che, nonostante le difficoltà, non si arrende e con spirito combattivo e tenacia lotta per vedere i propri diritti calpestati e la loro dignità ridotta a brandelli. Una parte del quartiere che ogni giorno lotta contro il degrado dilagante, che cerca di diffondere maggiore conoscenza del problema e di espandere i suoi orizzonti, pur trovando la resistenza di molti.
Nel frattempo, il numero di genitori che, in preda all’esasperazione, richiede il nulla osta, per consentire ai propri figli di studiare in un’altra scuola, cresce. Il carattere di precarietà che la situazione scolastica del quartiere assume turba i genitori, i quali cominciano a nutrire forti dubbi sulla preparazione dei propri figli, dal momento che i programmi ministeriali non vengono seguiti correttamente, a causa dei numerosi problemi che le scuole si sono trovate a dover affrontare improvvisamente.
I residenti del quartiere si sentono sempre più soli, avvertono la sensazione di essere carta straccia per le istituzioni e ritengono che siano stati lasciati allo sbaraglio ad affrontare un’emergenza più grande di loro.
ALESSIO: “QUI E’ TUTTO PERICOLOSO, HO VISTO AMICI E FIGLI DI AMICI MORIRE”
Incontro poi Alessio, un nonno di settantatré anni, operaio in pensione che difende strenuamente il diritto allo studio dei suoi nipoti.
“Che senso ha chiudere la scuola? Non è la scuola che inquina, quelle sono Ilva ed Eni! Chiudono le scuole in via Deledda, quando a pochi metri dalla Vico c’è un cantiere ancora aperto da anni, nel quale si lavora ininterrottamente. Il cantiere è sorto per aggiustare la falla che si era creata anni fa al mercato per colpa delle tubature dell’Ilva, chi dice allora che le tubature possono causare danni solo in quel pezzetto di terra? Qui è tutto pericoloso, l’aria la respiriamo appena svegli, non è mica aria fresca di montagna, eh! Credono che siamo tutti fessi, che permetteremo che il signor sindaco e company continuino a prenderci in giro, a rimandare e rimandare, a non darci una risposta concreta e che sia una e ultima! Adesso basta! – alza un po’ il tono della voce, lasciandosi trasportare dal discorso, poi riprende – Credono, forse, che a forza di rimandare, noi ci arrenderemo oppure che ci lasceremo abbindolare dalle loro parole.
I politici e i grandi industriali credono di essere furbi, di potere continuare a curare i loro interessi a discapito della nostra pelle
Mi posso ritenere fortunato ad essere vivo alla mia età, ma ho visto amici e giovani, figli di amici, morire. Io no, io per fortuna sono ancora qui, a difendere la mia città e i miei nipoti come ho sempre fatto da che ne ho memoria. E sai di cos’altro ho memoria? Dei miei coetanei che nell’Italsider dormivano e se ne vantavano, chiudevano un occhio e poi pure l’altro perché avevano trovato l’oro là dentro e oggi criticano la fabbrica. Dormivano e mangiavano a sbafo, colpevoli loro”.
Alessio distoglie lo sguardo da me, si volta verso la scuola chiusa, la guarda con rammarico e quasi si commuove. Poi si tocca la barba, ormai canuta, come a cercare forza e calma in essa.
Il crollo al mercato, a cui fa riferimento questo nonno, si è verificato nel 2012, alle 07:00 del mattino. All’interno dell’area mercatale, infatti, si è creata una voragine che ha inghiottito un camion con tre ambulanti al suo interno, che successivamente sono stati portati in ospedale.
Il perito che all’epoca dei fatti esaminò il caso, affermò di aver trovato un nesso fra la voragine e le condotte sotterranee dell’ex Ilva: “La prima direttrice va dalle caditoie che perdevano acqua verso la galleria Ilva n. 2, la cui struttura entrava in crisi rompendosi; la seconda, dalla galleria rotta che, trascinando al suo interno tanto materiale, ormai sciolto, per circa 46 metri lineari, provocava in superficie una voragine”
Inoltre, sempre nel 2012, incominciò a diffondersi l’idea che anche le costruzioni dell’area circostante il mercato, fra le quali rientra il plesso G.B. Vico, fossero a rischio.
L’ULTIMATUM DEL SINDACO? ARIA “CALDA”
E torniamo ad oggi. A distanza di pochi giorni dall’ordinanza e dalle rimostranze dei cittadini indignati, il sindaco della città jonica lancia un ultimatum all’ex Ilva, promettendo di fermare l’area a caldo dello stabilimento, se non verranno prodotti dati certi e aggiornati e che escludano la criticità della situazione ambientale entro e non oltre le ore 12:00 del giorno 8 aprile 2019.
Tale iniziativa sembra però porsi in contraddizione con quanto accaduto qualche giorno prima.
Il 25 marzo, infatti, il sindaco Rinaldo Melucci, assieme ad altri membri della giunta, ha votato contro la mozione del consigliere ex M5S Massimo Battista che chiedeva al sindaco di osservare la legge vigente del principio di precauzione, affinché venisse bloccata l’acciaieria. Il motivo di questa mozione è, come si legge sul profilo Facebook del consigliere, che:
“È stata evidenziata una “relazione causa-effetto tra emissioni industriali e danno sanitario” e sono riportati dati preoccupanti che riguardano i minori: tra i bambini di età da o a 14 anni residenti a Taranto, “si sono osservati eccessi importanti per le patologie respiratorie”: in particolare tra i residenti nel Quartiere Tamburi “si osserva un eccesso di ricoveri pari al 24%“; la percentuale sale “al 26% tra i bambini residenti al Quartiere paolo VI”
Ma l’8 aprile giunge inesorabilmente e i dati richiesti dal sindaco arrivano alle 11:56, giusto 4 minuti prima della scadenza.
Dati che si dipanano in ben sette pagine, firmate dal direttore generale dell’Asl Stefano Rossi.
Il sindaco di Taranto, però, pur avendo fissato questa data e avendo promesso di vigilare personalmente sulla questione, all’arrivo dei dati era ben lontano dalla città; egli, infatti, si trovava a Roma per il tavolo sul Contratto istituzionale di sviluppo. Il tavolo era stato predisposto già diverso tempo fa e quindi il sindaco Melucci ne era a conoscenza.
La coincidenza di date ha fatto indignare i cittadini, che hanno visto in questo atteggiamento del sindaco mancanza di rispetto e, soprattutto, di volontà di agire con fermezza nei confronti dell’ex Ilva.
MARRAFFA: “I MIEI PAZIENTI MI DICONO CHE E’ MEGLIO MORIRE DI TUMORE CHE DI FAME”
Proprio nel giorno dell’arrivo di questi famigerati documenti, mi sono recata nello studio della dottoressa Ivana Marraffa, medica del quartiere Tamburi.
La sua esperienza pluridecennale, nello studio in Via Galeso, le permette di affrescare in maniera completa la situazione del quartiere.
La dottoressa si rende subito disponibile al dialogo, è molto cordiale.
Ci accomodiamo, esordisce così: “Bastano poche parole per descrivere la situazione: qui non cambia nulla! Sono passati cinquant’anni e tutto è rimasto com’era. Risolvere il problema è impossibile, perché le persone che lavorano all’interno dell’ex Ilva non vogliono che tutto questo cambi. Loro lavorano lì, si assicurano il pane con 1200 euro al mese, che a Taranto non sono pochi, io lo comprendo.
Proprio qualche giorno fa discutevo di ciò con un mio paziente: poco più che ventenne ha accettato, di buon grado, di lavorare nello stabilimento siderurgico. Lui appare contento di ciò e io non comprendo come possa esserlo. È giovanissimo, se solo lo volesse, potrebbe trovare un lavoro migliore, grazie alla sua qualifica. Gliel’ho fatto presente più volte, l’ho invitato a riflettere sulle sue azioni, non è un padre di famiglia, non deve provvedere a nessun altro che a se stesso. Ora ha un posto di lavoro in quella fabbrica, fra qualche mese sicuramente si farà un mutuo per comprare una casa proprio nei pressi di quelle ciminiere.
Sai quanti pazienti hanno agito così e poi si sono ritrovati anche senza casa, quando sono stati licenziati? Mi mette tristezza vedere dei giovani che si arrendono con questa facilità, non combattono, accettano i meccanismi e ne diventano parte integrante, senza porsi interrogativi”
La dottoressa ha un temperamento passionale, si lascia travolgere dal discorso. D’altronde, sono decenni che si scontra con una dura e multi-sfaccettata realtà e che cerca di sensibilizzare i suoi pazienti.
“Molti pazienti mi dicono che per loro è meglio morire di tumore che di fame. Loro non comprendono o, probabilmente, non vogliono farlo. “Dottorè, vengo a mangiare a casa sua se l’Ilva chiude?”, questo mi dicono, quando mi vedono ai cortei.
È difficile mutare una mentalità così profondamente radicata. Il Tarantino medio è geneticamente pigro e menefreghista, non va oltre il proprio interesse, agisce in maniera poco lungimirante e non crede nel suo potenziale. Tutto questo mi fa rabbia”.
La dottoressa aggrotta le ciglia e si guarda attorno, poi riprende il discorso:
“L’ex Ilva ha fornito molti posti di lavoro in anni passati, ma ha anche fatto in modo che molti mestieri tradizionali e utili per la società scomparissero. Sarebbe bello se i giovani potessero di nuovo puntare sull’agricoltura, sull’artigianato e sui beni culturali, i quali potrebbero davvero fare la fortuna della città, senza peraltro condannarla a morte certa
Io, in qualità di medico, ho assistito diversi pazienti che lavoravano in quella fabbrica. A volte, venivano nel mio studio e mi dicevano di avere un particolare disturbo alla gola, con gli occhi colmi di paura. Temevano per la loro vita, temevano di avere un tumore e talvolta era vero. Quegli uomini si erano condannati con le loro stesse mani per 1200 euro al mese, in una fabbrica che cade sempre più a pezzi.
La gente si ammala con un ritmo insostenibile, solo recentemente si sono ammalate quattro persone!”
Le parole della dottoressa Marraffa sono colme di amarezza, basterebbe guardare nei suoi occhi azzurri per capire quanto la situazione critica della città le stia a cuore e la sconvolga. Sebbene descriva con lucida consapevolezza il quartiere e i suoi problemi, questa donna forte e coraggiosa non sembra arrendersi e quotidianamente dialoga con i suoi pazienti, con ammirevole costanza.
“La verità è che questo quartiere è abbastanza complicato. C’è molta ignoranza e arrendevolezza. Molti si lamentano, ma sono in pochissimi a lottare e ad agire concretamente.
Alla scarsità di lavoro, inoltre, si aggiunge la scarsità d’informazione. Non colpevolizzo i pensionati Italsider, ben poco si sapeva del problema inquinamento, in anni non sospetti. Questi poveri e onesti pensionati sono anche “costretti” a sobbarcarsi il mantenimento dei giovani
Fra i giovani della città noto spesso mancanza di volontà e di spirito d’iniziativa: come ci si può ridurre a vent’anni ad essere felici di lavorare in un luogo di morte?
La risposta è molto semplice: il lavoro è il lavoro, e per alcuni ragazzi è più facile rimanere vicini ai propri genitori, andare da loro a pranzo la domenica e stare nei pressi di casa di mamma e papà anziché prendere uno zaino sulle spalle e cercare lavoro, un’opportunità di riscatto personale. Non c’è forma di ambizione nei loro occhi. Ad alcuni di loro sembra perfino assurdo rimanere in questa città, che tanto avrebbe da offrire, e provare a trovare un’alternativa valida all’ex Ilva. Sono fermamente convinta che il futuro della città dipenda dai nostri giovani, la mia generazione ha già lottato strenuamente negli anni ‘60 e continua ancora a farlo, ma non basta. Ci vuole una vera e propria ribellione, un insorgere di intelletti e di idee, di proteste ma soprattutto c’è bisogno di avanzare valide proposte alternative all’Ilva.
Taranto in tal senso mi pare totalmente sopita, statica. Taranto è una città depressa perché vogliono che sia così, fa comodo. Perché a Genova hanno chiuso l’Ilva? Perché lì le persone si sono subito adirate, hanno compreso fin in fondo la gravità della situazione e hanno smosso mari e monti. I Tarantini oggi conoscono bene l’entità del problema e se ne lamentano, ma il tempo per le lamentele è finito, bisogna adoperarsi in altro modo per raggiungere un vero obiettivo.
Credo che per riuscire in questo intento, le scuole possano essere un punto di partenza fondamentale. Si deve cercare di rendere i ragazzi consapevoli e attivi quanto più possibile, è necessario agire con celerità, per cercare di ottenere validi risultati. I ragazzi devono comprendere che solo loro sono la chiave di volta per un futuro sereno e più pulito.”
Esco dallo studio della dottoressa Marraffa, e sulle mura delle abitazioni del quartiere scorgo diverse scritte.
Dalla più inquietante raffigurazione di una maschera antigas, circondata dalla scritta “Attenzione città inquinata”, che sembra rievocare le avvertenze in prossimità di aree contaminate, quasi un preludio di un film dell’orrore. Si passa poi a scritte più semplici, degli slogan di immediata comprensione, ma non per questo meno taglienti: “O l’acciaio o la vita, devi scegliere!”.
Un ricatto occupazionale che stringe i cittadini di Taranto da decenni, come in una ragnatela da cui sembra impossibile liberarsi.
Eppure Taranto potrebbe davvero esprimere le proprie potenzialità come vera e propria città d’arte. Ma i Tarantini dovrebbero prima di tutto conoscere le proprie radici e riappropriarsene, in un’ottica di forte riscatto sociale, economico ed ambientale.
Leggi anche:
Taranto, il sindaco chiude le scuole? E noi “chiudiamo” l’Ilva
“Taranto non ci vuole”, il grido di dolore dei bambini senza scuola
Taranto, racconti e battaglie da “MiniBar”
Taranto: emissioni ex Ilva, diossina e ozono in crescita