Intervista al fotoreporter che ha fatto del suo mestiere una missione sociale: “Si sceglie di diventare partigiano, di schierarsi al fianco di chi perde”, ha detto raccontandosi al Tacco
Di Francesca Rizzo
Marcello Carrozzo ha un dono: quello di trasmettere, sia con le parole che con le immagini, la passione per un mestiere unico.
Fotoreporter da venticinque anni e giornalista pubblicista, ha girato il mondo (dal deserto del Gobi alla Giordania, dalla Striscia di Gaza alla Grecia, passando per Uruguay, Congo, Kenya, Albania e Turchia) collaborando con ONG e istituzioni internazionali nel documentare le condizioni disperate delle popolazioni più disparate.
I suoi lavori hanno vinto premi importanti, ma ben più importante è il suo modo di lavorare, la difesa della propria indipendenza, anche nel rispetto di chi davanti al suo obiettivo si spoglia, raccontando l’inferno che ha dentro: “Sono io che decido a chi affidare le mie storie”, afferma Carrozzo.
Fino al 2 aprile, il Laboratorio urbano di Lizzanello (Le) accoglie “Itaca sempre”, il reportage fotografico realizzato da Carrozzo in tre anni, a bordo dei mezzi della Guardia di Finanza, mentre uomini e donne in divisa prestavano soccorso ai tanti migranti che hanno attraversato il Mediterraneo sognando la pace.
// L’INTERVISTA Quando ha iniziato a fare questo mestiere?
Io sono figlio d’arte, mi sono diplomato in fotografia a Milano, poi ho fatto una scelta diversa e per un periodo della mia vita ho frequentato l’Istituto superiore di scienze optometriche, quindi ho seguito le orme di mio padre, che ha un negozio di ottica e fotografia. Ad un certo punto, 25 anni fa, ho fatto una scelta forte: quella di seguire il cuore, l’istinto e la passione, e dedicarmi alla fotografia sociale all’estero. A questa attività ho dedicato gli ultimi 25 anni. Ho fatto il giro del mondo, sono stato in Africa, Oriente, Estremo Oriente, tutta l’Europa, Nord e Sud America.
Perché lo ha scelto?
Fare fotografia sociale non è una percorso professionale che si sceglie, ci si arriva. È qualcosa che matura nel tempo, si fanno determinate scelte: si sceglie di diventare partigiano, di schierarsi al fianco di chi perde, di chi subisce, di chi è perseguitato e cacciato. Le ingiustizie iniziano a renderti le notti insonni, e a quel punto scegli da che parte stare, e in che maniera. Se avessi scelto di fare il medico, in questo momento lavorerei per Emergency o per Medici senza frontiere: come fotoreporter la mia “arma”, il mezzo per denunciare le ingiustizie del mondo è la macchina fotografica. Sono partito andando a scavare nei luoghi bui del mondo, dove normalmente non arriva la luce, e dove ho scoperto un’umanità molto più umana di quanto ci si aspetterebbe. Si scopre l’umanità nei luoghi in cui non sorprenderebbe, invece, scoprire la disumanità causata da una serie di ingiustizie. Stabilisci con questo mondo un rapporto empatico, fino a diventare portavoce, latore di un messaggio, di un sogno, di una speranza, e portare i messaggi forti, che a volte sono semplicemente sussurrati dalla gente che vive in quei luoghi.
Quali sono le difficoltà che s’incontrano sul campo?
Le difficoltà sono tante. Il mio è stato un percorso di studi abbastanza variegato, sono una persona fondamentalmente molto curiosa, e ho dedicato alcuni anni della mia vita allo studio dell’etologia. Non mi bastava leggere L’anello di re Salomone di Konrad Lorenz, l’etologo per eccellenza: volevo capirne di più, e partendo da modelli semplici, come gli insetti, ho approfondito sempre di più, fino ad arrivare alla complessità dell’essere umano, allo studio del comportamento. Questo mi ha aiutato molto nel lavoro, altrimenti sarei stato molto più in difficoltà: il linguaggio del corpo diventa il vero Esperanto, la lingua che tutti noi esseri umani parliamo senza parlare. Questa capacità di entrare velocemente in empatia con la gente con cui devo stabilire una serie di rapporti forti, umani, di rispetto, è un vantaggio nel mio lavoro in giro per il mondo. L’entrare in punta di piedi nella vita degli altri passa attraverso la capacità non solo di leggere il linguaggio del corpo, ma di applicare tutta una serie di strategie comportamentali, tali da essere letto, e quindi essere accettato,come persona alla quale ci si può affidare, o si può affidare un messaggio. Nel momento in cui ho stabilito una serie di relazioni profonde, intime e soprattutto vere, allora nasce quasi come scelta condivisa il fare fotografia. Non è più il soggetto che “subisce” davanti all’obiettivo, ma è come un bisogno di dire “Racconta al mondo la mia storia, fatti portavoce dei miei disagi e dei miei bisogni”.
Qual è stata l’esperienza più drammatica che ha vissuto?
Io detesto le classifiche, ogni storia ha una sua emozione e un suo spessore, ogni storia ha scavato profondamente nel mio cuore. Tra le più forti ricordo la storia di una vedova alla periferia di Ulan Bator, in Mongolia. È stata un’esperienza bellissima: ero lì su mandato dell’OMS; chiesi all’interprete di lasciarmi entrare da solo nella tenda di questa donna, che viveva lì con i suoi bambini. Lei mi raccontò la sua storia tenendomi per mano, e devo dire che non c’è stata storia più bella, raccontata in lingua mongola, che mi abbia colpito di più per le profonde parole dette. Io non conosco il mongolo, ma attraverso lo sguardo, le mani che si tenevano e che lei ogni tanto stringeva, poi volgeva lo sguardo verso una fotografia che le ricordava il marito e staccava una mano per asciugarsi una lacrima, è stata una delle esperienze più forti dal punto di vista emozionale, è stato molto bello. E poi i migranti: io ho dedicato tre anni della mia vita ai flussi migratori al largo delle coste libiche, nel Canale di Sicilia, nel Canale d’Otranto, attraverso il Mar Egeo, e di disperati “in viaggio verso Itaca” ne ho incontrati. E non essendo un fotografo alla caccia disperata dello scoop, dell’immagine che deve colpire, da vendere immediatamente ai giornali, ogni volta io ho stabilito con queste persone un rapporto umano: una delle cose di cui sono orgoglioso è che tutte le persone che fotografo, per me hanno un nome, un cognome e una storia che mi hanno raccontato. Magari poi io non la racconterò a nessuno, perché queste persone hanno aperto il loro cuore in un momento di debolezza, e quindi io devo tenerle per me, a meno che non mi venga fatta una specifica richiesta. Molte volte mi è capitato di sentirmi dire: “E adesso racconta al mondo quello che ci hanno fatto.
L’aspetto etico è fondamentale nel Suo lavoro. Non pensa che negli ultimi anni ci sia un uso anche irrispettoso delle immagini? Pensiamo alla foto del piccolo Aylan Kurdi, il bambino siriano morto sulla spiaggia.
Generalmente io faccio salva la dignità dell’individuo, sempre e comunque: è il mio punto d’orgoglio. Però il caso di Aylan Kurdi è un caso particolare. Mario Calabresi ha detto: “Ci sono pezzi di storia che esistono solo perché c’è una fotografia che li dimostra”. Quanto bene ha fatto quella fotografia, alla fine? Se la morte di un bambino spalanca i cuori di un’Europa sorda, cieca, muta e insensibile (non dimentichiamo che la Germania immediatamente dopo la morte di Aylan e la diffusione della foto aprì le porte a oltre un milione di Siriani) allora viva Aylan Kurdi: questo suo sacrificio non è stato vano, se poi ha prodotto una riflessione profonda sulla drammaticità della situazione siriana e non solo. Ci sono altre guerre delle quali noi non conosciamo nulla e non vogliamo saperne nulla, non ultima la situazione nello Yemen: allora saltano alla mente le 245mila bombe fornite dall’Italia all’Arabia Saudita per essere usate nello Yemen; bisognerebbe che anche i nostri governi fossero meno ipocriti e facessero scelte economicamente difficili, ma rispettose dell’essere umano. Ma a parte il caso di Aylan Kurdi, bisogna vedere se l’etica ti permette di fotografare un corpo privo di vita e diffonderlo: l’equilibrio tra etica ed estetica è sottile, non bisogna farsi prendere dalla corsa allo scoop. Si fotografa un cadavere per sbatterlo in prima pagina, o diffonderlo sul web, e poi? Cosa sappiamo di quel ragazzo? È una vittima o un combattente? Fa parte dei buoni o dei cattivi, ammesso che dopo la morte si possa parlare di buoni e cattivi?
Com’è cambiata la professione del fotoreporter, oggi che basta avere uno smartphone per sentirsi fotografi provetti?
Basta guardare le fotografie esposte per il World Press Photo, per rendersi conto di quanto sia cambiata la situazione: fino a dieci, quindici anni fa i vincitori erano i soliti nomi, grandi fotoreporter del mondo del giornalismo. Oggi tutti hanno l’opportunità di vincere quello che resta comunque un premio ambìto. Circa dieci, dodici anni fa è apparso all’orizzonte il cosiddetto citizen photographer, quella persona dotata di un telefonino, che ha avuto la fortuna di essere al posto giusto nel momento giusto, quando di lì è passata la Storia. Che in realtà è la speranza di ogni fotoreporter, cercare disperatamente di essere testimone di un fatto. Mi viene in mente Piazza Tienanmen, o la rivoluzione polacca, con Jan Palach che si immola bruciandosi in piazza contro l’invasione russa. Se si ha la fortuna di esser lì in quel momento e fare una fotografia che diventa storia, memoria collettiva, ci si accontenta di una fotografia mediocre pur di assurgere alla notorietà mondiale grazie ad uno scatto. E poco importa se hai lasciato la fotocamera in albergo e magari hai solo un vecchio telefonino: se di lì sta passando la Storia l’importante è documentare il fatto, non la qualità dell’immagine. Ma il citizen photographer che vince il World Press Photo non diventerà un professionista da un giorno all’altro, è uno come tanti altri che è semplicemente stato fortunato. L’approfondimento, la capacità di analisi e di fare sintesi narrativa di tutto il lavoro fatto: questo è ciò che è in grado di fare un vero professionista.
Io non guardo il citizen photographer come un concorrente, non sono su queste posizioni radicali; i fotografi bravi li avevamo in Vietnam, quando i grandi fotografi embedded seguivano le operazioni dei marines e hanno avuto la possibilità di fare fotografie importanti, avendo anche il coraggio di rischiare la vita e mettendo in conto che dai quei luoghi potevano anche non tornare più. Io ho viaggiato come clandestino in Medio Oriente, vagando da un campo profughi palestinese all’altro, da solo, lasciando il mio passaporto a Damasco, perché volevo capire cosa significa essere clandestino in un luogo di cui non si conosce la lingua, e si ha paura dei soldati pronti ad arrestarti e a massacrarti. Sono tornato a casa dopo tre mesi con 18 kg in meno, ero l’ombra di me stesso, ma ho portato a casa un lavoro straordinario, di un’umanità incredibile. Molti parlano senza avere contezza della situazione, senza conoscere l’odore dei luoghi. Se vuoi fare questo lavoro in modo serio devi stare alla larga dai discorsi salottieri e avere scarpe comode per girare il mondo.
Cosa consiglia ai giovani che vorrebbero intraprendere la professione del fotoreporter oggi?
Giusto stamattina ho ricevuto una telefonata da un ragazzo che sto seguendo, che è in partenza per il Nepal. Gli ho detto di non tornare prima di tre mesi, di restare lì finche non inizierà a sentire forte il bisogno di casa, degli affetti, e allora dovrà imparare a superarli. Essere un fotoreporter è il più gran bel lavoro di merda del mondo: se le ambizioni sono guadagnare molto per permettersi l’orologio o la bella macchina, allora non è il lavoro giusto. Ci vuole una spinta interiore forte, bisogna avere motivazioni molto forti per questo lavoro. Non ci si può improvvisare, bisogna avere un percorso professionale, tornare tra i banchi e apprendere anche la teoria. Io a Milano ho lavorato sul campo, ho vissuto una palestra straordinaria: gli scioperi del Sessantotto, le Brigate Rosse, ma non bastava. Ho dovuto affiancare la teoria per colmare le lacune che avevo.
All’inizio, quando non sei nessuno e nessuno ancora crede in te devi stringere la cinghia, autofinanziare i viaggi, e poi, se hai doti professionali e morali, inizi a farti strada.
Due reportage d’eccezione realizzati da Marcello Carrozzo, fotoreporter e docente di Fotografia al Master in Giornalismo dell’Università di Bari. Ringraziamo Marcello per la generosità con cui ha voluto farci conoscere il suo lavoro, consentendoci di pubblicare i suoi scatti. MLM
35º Parallelo, Canale di Sicilia, migranti provenienti da Bengasi
Skala Sikamineas, Lesbo
All’arrivo sull’isola, i migranti si accampano con tende di fortuna intorno all’hotspot Kara Tepe Camp in attesa di potervi entrare per le procedure di identificazione.
I tempi di attesa per ottenere un permesso provvisorio di transito sono molto lunghi, a volte si protraggono fino a tre mesi.
Soltanto quando vengono in possesso dei documenti possono imbarcarsi per il Pireo, a loro spese.
Chi non ha denaro a sufficienza è costretto a trovare lavoretti in nero o chiedere l’elemosina.
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