Lecce 1985: il libro di Maffei, riaccende ricordi bellissimi

di Umberto Morigine*

Conservo ogni reliquia relativa alla mia squadra del cuore: biglietti dello stadio, foto, bandiere, adesivi, articoli di giornale e fanzine, il tesserino di corrispondente sportivo di mio padre del 1964, persino un certificato azionario dell’Unione Sportiva Lecce Spa (regalo agli abbonati del 1985/86).

Molte di più le conservo nella mia mente: un album di immagini nitide, dense di affetto, indelebili, soprattutto le più remote.

A partire da un Lecce – Rimini (1982) da sliding door: un rigore tirato in curva sud da Magistrelli e, subito dopo, il 2-2 segnato dai romagnoli.

Poi Lucia, la maestra tifosa che ci insegnava gli avverbi con lo striscione “Ovunque e dovunque sempre forza Lecce”, ma anche “Roby goal e via verso la Nord”.

Anni di faticose salvezze, Mazzia, Di Marzio, Corso, e di porte aperte per noi ad un quarto d’ora dalla fine, quando il biglietto era un lusso e speravi di entrare al vecchio Comunale ed esultare (all’epoca si usava aprire le porte dello stadio alla mezz’ora del secondo tempo, consentendo l’accesso di quanti sostavano fuori).

Partite che iniziavano con “Via, Lecce via” e si chiudevano con interminabili “Ale oh oh”.

E poi Ciro e Michele: il buio del dicembre 1983, ma anche un momento di grandissima coesione popolare.

Lo ricordo come fosse ieri, per mano a papà, per le strade del centro: orgoglioso di esserci, mentre i cori ritmati accompagnavano i nostri sino alla chiesa di Fulgenzio, consegnandoli alla leggenda.

Nel calcio ciò che appare retorica è, per molti di noi, senso di appartenenza, rivendicazione, riscatto.

C’è un istante preciso in cui la memoria sbiadita del tifoso diventa un flashback chiaro, chiarissimo.

Per me quel momento è datato dicembre 1983 e, da allora, c’è solo un mondo in technicolor.

Di lì a poco sarebbe arrivata la scuola media e, a cavallo tra il 1984 ed il 1985, la prima cavalcata trionfale dei giallorossi verso la massima serie: un sogno.

Ecco perché, quando Adolfo Maffei ha annunciato l’idea di raccontare in un libro quella fantastica annata, ne ho atteso con ansia la pubblicazione: per ripercorrere quel campionato e consegnare agli scaffali di casa ciò che gli anglosassoni definirebbero un must have.

Ho sempre avuto grande stima del Maffei giornalista, quasi timore reverenziale. Quando lo scorgevo “in poltrona” nelle tv locali, lo consideravo uno dei grandi del settore, un alieno alle nostre latitudini per stile e competenza.

Conservo ancora alcune preziose copie del Corsivo. Eppure ne ignoravo i trascorsi sportivi, da cronista al seguito della nostra squadra nella prima indimenticabile promozione in serie A.

Un’epoca in cui i giornalisti (Elio Donno, Umberto Verri, Mimmo De Gregorio, Calvi gli altri del gruppo) viaggiavano come accompagnatori, condividendo tempo e spazio con i calciatori. Impensabile oggi.

Lecce 1985 non è una visione dall’esterno, ma è il diario di bordo di chi lo ha vissuto in prima persona e ne rivela con maestria i tratti più curiosi, a tu per tu con i protagonisti, attraverso un elastico continuo tra il qui e l’allora.

Man mano che scorrono le pagine il lettore tifoso scopre, riscopre ed affianca su un foglio bianco il proprio vissuto, quasi a volerlo annotare accanto alle righe dell’autore.

La tentazione è forte e non mi sottrarrò. Persino prefazione e postfazione (rispettivamente del decano Elio Donno e del talentuoso Gabriele De Giorgi) sono esperienze autonome, come lo è il racconto di Saverio Sticchi Damiani, coetaneo nato con il dna del Presidente.

Ciascuno aggiunge uno o più tasselli ad un mosaico che Maffei lascia aperto al contributo di tutti.

Lecce 1985 non è solo un libro, è un viaggio nei ricordi di ciascuno di noi, è un docu-libro che meriterebbe di diventare un film.

La sintesi tra un tuffo nel passato, la scoperta di dettagli inediti ed un percorso terapeutico, attraverso la rielaborazione dell’epoca più felice per noi della generazione X. Quando c’erano tutti, davvero tutti, e ci apprestavamo a vivere la prima grande emozione sportiva, dopo il Mundial 1982.

Nella mia testa riemergono alcune istantanee di quel campionato. Il calcio è memoria fotografica e vocale.

Erano tre le modalità per seguire la partita, due delle quali comuni a tutti gli sportivi.

Andare sugli spalti (la preferita con ampio distacco), appiccicarsi alla radio (sconsigliata ai deboli di cuore), infine la più romantica, riservata a chi, come me, abitava nei pressi dello stadio: attendere paziente, sul balcone, il boato dei tifosi di casa. Un tuono fragoroso che portava la felicità.

Seguii l’esordio di San Benedetto del Tronto alla radio, a casa di Gigi Mirto, amico di famiglia e storico narratore delle vicende calcistiche leccesi. Una vittoria che fece ben sperare (Lecce 1985 rivela un pericolosissimo retroscena sull’esordio marchigiano).

Ero sul balcone della mia casa quando Robertino Rizzo, da poco subentrato ad Alberto Di Chiara, raccolse la corta respinta di Imparato, su tiro di Miceli, ed infilò in rete il pallone che valse la vittoria nel derby con il Bari, provocando una scossa di magnitudo indefinita.

Andai allo stadio, infine, nelle ultime indimenticabili 4 partite: le gare casalinghe contro Campobasso (2-2 con rimonta da 0-2) e Cagliari (2-0) e le due fondamentali trasferte di Trieste (1-1) e Monza (1-1).

A dieci anni quei torpedoni giallorossi diretti al nord furono per me un viaggio al luna Park del calcio, un rito di iniziazione vero e proprio, vicino a personaggi epici come Balilla (il corista storico: forse è lui il tifoso con il banco della frutta di cui racconta il difensore Colombo) e gli altri della curva.

La città si trasferiva in blocco: come in guerra restavano a casa donne e bambini (io ero tra i fortunati a partire) e la soddisfazione era direttamente proporzionale ai chilometri percorsi.

Alla parte sportiva mio padre affiancava la visita della città, con il Duomo ed il parco di Monza e piazza Unità d’Italia nella bellissima città giuliana.

Lecce 1985 ha una struttura narrativa che agevola la lettura.

Contiene oltre 20 capitoli dedicati, individualmente, ai protagonisti di quella vittoria. Si può scegliere da chi partire e lasciare i propri preferiti per la fine.

Ne manca solo uno, probabilmente: Marino Palese. All’ala sinistra è legato un altro ricordo di infanzia: prese casa nel rione San Sabino, via Matera, se non erro nello stesso condominio del dirigente Mandurino.

Ogni tanto, mentre giocavamo a pallone, arrivava Miceli per accompagnarlo agli allenamenti pomeridiani. Quando noi ragazzini della zona (Giacomo, Mimmo, Giuseppe, Andrea ed altri ancora…) scoprimmo che lì abitava uno dei nostri eroi, diventammo stalker, con citofonate e cori a tutte le ore del giorno.

L’incipit del libro è ovviamente riservato ad un grande Presidente: il geometra Franco Iurlano.

Maffei ne fa emergere la grande umanità, delinea i tratti da buon padre di famiglia e la capacità organizzativa, che prevalgono su un’immagine talvolta pittoresca, con quell’aspetto burbero e la voce modificata dai problemi di salute.

Ruolo ingrato quello del massimo dirigente: Iurlano, come tutti i suoi omologhi, fu amato e contestato. A distanza di 35 anni riconoscere tutti i suoi meriti è quantomeno doveroso.

Tra gli inediti il racconto del rapporto con Peppino Palaia, trait d’union tra club e squadra, e le cene di raccordo, con la piacevolissima presenza del compianto Bruno Petrachi, padre di Gianluca ed autore delle più belle canzoni popolari leccesi. Momenti che contribuirono a creare un clima familiare.

Di certo le vittorie sportive furono il prodotto delle capacità gestionali e manageriali del club, con la direzione sportiva di Mimmo Cataldo, uno staff medico atletico di livello assoluto (Sassi, Neri, Palaia e Smargiassi i più citati) e la presenza silenziosa di bravissimi dirigenti, come Enzo Delli Noci.

Immagino una hall of fame al via del Mare in cui troverebbero posto molti di loro.

Da Fascetti, primo allenatore ed inventore del caos organizzato (sistema di gioco che prevedeva l’interscambiabilità di ruoli e posizioni), emergono alcune caratteristiche peculiari: la gestione meritocratica del gruppo, coeso ora come allora, l’onestà e la finezza intellettuale. Ambizioso, competente, trasparente e illuminato.

Quanto ai protagonisti in calzoncini (quell’anno si usava il blu scuro sotto la maglia giallorossa), ne cito giusto alcuni, tra i miei preferiti (insieme a Micio Orlandi, Ezio Rossi e i leccesi), anche per non spoilerare contenuti che vanno letti tutti d’un fiato.

Giorgio Enzo, mastino di centrocampo, coinvolto in una vicenda umana che lascerà molti a bocca aperta.

Carmelo Miceli, libero vecchio stampo, il nostro Beckenbauer, sempre presente nelle 38 gare di quella stagione. Scuro come la terra calabrese da cui veniva, guardava le spalle ai marcatori e ripartiva affiancando il centrocampo: è suo il ricordo più emozionante della tragedia di Lorusso e Pezzella, ai quali non a caso è dedicato il libro (caro direttore Maffei, le lancio un’idea, oltre al film: un libro che racconti solo di Ciro e Michele, attraverso le testimonianze di chi li ha vissuti).

Infine Rodolfo Vanoli, in assoluto il calciatore che ho più amato nei miei oltre quarant’anni di fede giallorossa: corsa, classe e garra al servizio delle due fasce laterali, qualche calcio ben speso nelle partite che contavano davvero. La sua cessione all’Udinese, ineccepibile sotto il profilo finanziarie, fu un duro colpo per tutta la tifoseria che lo aveva eletto idolo indiscusso e “cuore ultrà”.

Il libro di Maffei, o lu Maffei come amava chiamarlo il Presidente, ha, tra i tanti pregi, quello di non dimenticare nessuno. Ci sono le voci dal campo, ma anche dagli spalti. Il dialogo tra squadra e tifo non era mediato, come accade ora. Era l’epoca de I Ragazzi della Nord, e Nicola Ricci, oggi apprezzato direttore di Salento in Tasca, fu uno dei fondatori. Un gruppo di ragazzi per bene che seppero aggregare un pezzo di città e crescere intorno ad una passione comune. Quei legami, socialmente trasversali, sono ancora ben riconoscibili nella nostra città.

 

*giornalista

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