La paura dentro

La drammatica testimonianza di due infermiere che lavorano in due diversi ospedali Covid19 nel Salento. A contatto con i malati, i morti, la paura di morire. Per il virus, ma anche a causa della scarsità di mezzi

di Thomas Pistoia

Le chiameremo Sandra e Katia. Forse si chiamano davvero così, forse no. La verità è che il loro nome non ha importanza. D’altronde in una guerra potremmo mai conoscere il nome di ogni singolo soldato? E’ così che è stata definita da tutti i media l’emergenza Coronavirus, no? Una guerra. Quindi loro, infermiere, sono “soldatesse” di quell’esercito che sta facendo di tutto per salvarci la pelle. Eroine di un esercito di eroi.
Vi sorprenderà sapere però, che le dirette interessate, entrambe salentine, e i loro colleghi, non si riconoscono affatto in questa visione epica che abbiamo di loro.

“Facciamo tutto quello che abbiamo sempre fatto” dice Sandra, quarantenne, che presta servizio in un ospedale del tarantino “Dobbiamo dire grazie al Corona virus se adesso il nostro lavoro viene finalmente riconosciuto. Io sto in terapia intensiva. Tutti noi, infermieri e medici, in realtà siamo esposti da sempre al rischio di contagio; esistono anche altre malattie (meningiti, epatiti, HIV, klebsiella… Potrei continuare all’infinito). Ogni paziente per noi è potenzialmente infetto e ogni giorno siamo a rischio. In più lavoriamo al sud, quindi soffriamo molto di più i tagli alla sanità che la politica ha fatto senza alcuno scrupolo. Forse adesso chi comanda ha capito quanto la sanità sia indispensabile, anche se credo che il nostro stipendio non cambierà nemmeno dopo tutto questo.”

Katia, che di anni ne ha 48, lavora in una terapia intensiva del Salento.

“Vuoi scrivere quello che viviamo ogni giorno? La paura devi scrivere” mi dice.

La voce che passa attraverso il telefono sembra quella di una persona stanca, provata, che però ha bisogno di raccontare.

Mi descrivi una tua giornata tipo? Cosa è cambiato nel tuo lavoro da quando è cominciata l’emergenza Corona virus?

“La nostra giornata di lavoro è dominata dalla paura di contrarre l’infezione. Dall’inizio alla fine del turno siamo sottoposti a uno stress continuo. C’è la consapevolezza che un minimo errore può significare il contagio. Abbiamo timore anche per le nostre famiglie, cui potremmo portare in casa la malattia.
C’è chi, sperando di evitarlo, quando fa la doccia dopo il lavoro, si cosparge di amuchina, o di acqua e candeggina, cosa che, in un contesto normale, non farebbe mai. Da un punto di vista pratico, il protocollo della terapia intensiva sui malati di Corona è lo stesso della polmonite, ma ogni attività è condizionata dalla necessità di evitare l’infezione, oltre che dall’assistenza particolare di cui necessita questo tipo di pazienti. Ma prima di continuare ti devo spiegare la differenza tra percorso “sporco” e percorso “pulito”.”

Dimmi.

“Ad esempio, in una sala operatoria il percorso sporco corre esternamente, circonda il blocco operatorio come i fossati circondavano i castelli medievali. Il percorso pulito è quello invece interno alla sala operatoria. Il paziente giunge dal percorso sporco, cioé dal mondo esterno, e accede a quello pulito, dove tutto è sterile e disinfettato. Ecco, questa divisione in terapia intensiva è del tutto cambiata. Il percorso “sporco” parte dalla prima metà del corridoio da cui prima accedevano i parenti per osservare i propri cari attraverso il vetro. Da questo primo tratto avviene l’accesso dei pazienti Covid e, purtroppo, anche l’uscita delle salme di coloro che decedono a causa del virus. La seconda metà del corridoio è invece il “percorso pulito”.

Come avviene l’accesso di un paziente?

“I pazienti giungono dal percorso sporco. Qui, indossando i dispositivi di protezione individuali, li accogliamo. Giungono in una barella speciale che viene detta “barella di bio-contenimento”. Nel momento in cui varcano il confine tra percorso sporco e percorso pulito diventano pazienti della terapia intensiva a tutti gli effetti. Vedi, questo confine esiste anche per noi operatori e fa parte della nostra vita quotidiana. Quando arriviamo al lavoro non entriamo in reparto. Prima dobbiamo andare a vestirci. E per farlo usiamo percorso pulito che ci porta in un locale apposito.”

Descrivimi l’abbigliamento e la preparazione.

“Ci hanno dotato di specchi ad altezza d’uomo, perché dopo la vestizione dobbiamo verificare di non avere nessuna parte del corpo minimamente scoperta. Indossiamo una tuta. Dovremmo usare tute per rischio biologico, ma non ne abbiamo, quelle che ci vengono fornite sono per rischio chimico, quindi in realtà inadeguate. Per questo, tra la divisa e la tuta, indossiamo il camice da sala operatoria che va bene per il rischio biologico. Poi indossiamo due paia di guanti. Il primo paio viene “incerottato” alle maniche della tuta. Poi mettiamo la mascherina, gli occhiali a maschera e un caschetto. Ai piedi indossiamo dei calzari. La paura nasce anche dalla necessità di vestirsi così. Ti chiedi “perché non devo avere neanche un millimetro di pelle scoperto?” e la risposta fa tremare. Un altro momento in cui si rischia l’infezione è quello della svestizione. Abbiamo fatto dei corsi per imparare come vestirci ma anche come svestirci. Quando ci svestiamo non dobbiamo mai toccare ciò che sta sotto la tuta (il che equivale a mettere in scena un un tragicomico balletto). Quando la tuta è a terra ne usciamo fuori. Poi togliamo tutti gli altri indumenti che vanno immediatamente allo smaltimento. Si recuperano solo gli occhiali maschera e il caschetto, che vengono sanificati e messi a disposizione dei colleghi che subentreranno. Gli occhiali, dopo una ventina di giorni, sono comunque da buttare, perché con l’uso si opacizzano.

Quando si esce dalla svestizione ci deve essere qualcuno che ti spruzza col disinfettante.

Non c’è amuchina in quantità sufficiente per tutti, quindi la si fa artigianalmente, con acqua e candeggina. Anche la candeggina non si trova facilmente, per fortuna l’ospedale ha ricevuto diverse donazioni. A volte la acquistiamo anche noi del personale. Non è che l’ospedale non ne voglia comprare, è che proprio non arriva dai fornitori.”

Cos’altro vi manca?

Il materiale per la vestizione comincia a scarseggiare, questo implica che si può impegnare nel reparto una quantità di personale limitato. Il materiale ci arriva dalla Protezione Civile di Roma, ma è razionato. Ieri è arrivata una circolare dell’Istituto Superiore di Sanità che dice che i dispositivi di sicurezza devono essere usati solo dal personale che assiste direttamente i pazienti Covid. E’ una direttiva assurda, tutto il personale è a rischio contagio, senza distinzioni.”

Quanto dura un turno di lavoro?

“Da quando è cominciata l’emergenza i turni superano anche le 12 ore e non esiste più il secondo riposo. Una parte del personale sta nella terapia intensiva e assiste direttamente il paziente. Gli altri colleghi stanno fuori e assistono quelli all’interno. Comunichiamo tramite lavagne. Quelli all’interno scrivono quello di cui hanno bisogno e quelli all’esterno lo procurano. Tra i due gruppi non deve esserci alcun contatto. Dopo 3-4 ore si fa cambio, anche perché non è possibile stare dentro più tempo, bisogna essere lucidi per non fare errori. Tieni conto che, con i dispositivi di sicurezza individuale addosso, per tutti, anche per i medici, qualsiasi operazione, dal prendere una vena centrale all’aspirare una fiala, diventa difficoltosa. Gli occhiali si appannano, i guanti alterano il tatto, in generale tutti i movimenti sono più impediti. Inoltre, come i pazienti affetti da polmonite. quelli colpiti dal Covid devono essere messi proni ogni 16 ore, per far defluire le secrezioni polmonari. Sono spostamenti che richiedono manovre professionali, vanno eseguiti da più operatori. Bisogna evitare pressioni errate e posizionare il volto in modo da agevolare il respiratore.”

La domanda è inevitabile. Avete perduto pazienti?

“Sì. Anche la maniera di gestire i pazienti deceduti è cambiata. La salma viene avvolta in un lenzuolo imbevuto di disinfettante, chiusa in un sacco bodybag e messa in una barella di biocontenimento, che viene poi trasportata all’obitorio da personale che indossa tutto il corredo per la protezione, attraverso un ascensore dedicato che viene poi sanificato dopo il rientro in reparto. Ma, vedi, la cosa più terribile è che questa malattia, distrugge i rapporti umani e familiari. Dal momento in cui entra qui, il paziente non ha più contatti con i propri cari, i quali possono chiedere di lui soltanto per telefono. Se dovesse morire, nessuno di loro lo vedrà più.

L’ultimo ricordo di lui in vita sarà il momento in cui l’ambulanza è andata a prenderlo a casa.

Vedere la solitudine di queste persone che vanno via senza un bacio, senza un fiore, è un’esperienza terribile, che segna anche noi. Ci immedesimiamo nei parenti, una cosa così potrebbe capitare a chiunque. Può capitare anche a noi.”

Non ho più domande. Concludi tu. Di’ quello che vuoi.

“Per noi infermieri, per i medici, questa è una realtà nuova, sconosciuta, della cui gravità ci rendiamo conto giorno per giorno. Più la impariamo, più aumenta la paura. Combattiamo contro qualcosa che non conosciamo e che cambia. Non è vero che colpisce soltanto gli anziani e chi è affetto da altre patologie. Ho visto ammalarsi giovani e giovanissimi, senza alcun tipo di patologia pregressa. Ci sono persone che sono decedute in due giorni a causa delle crisi respiratorie. Non ho mai vissuto nulla del genere in tanti anni di professione. Spero solo che i pazienti che abbiamo perduto non siano morti inutilmente. Spero che finalmente la politica capisca che non ci possiamo far trovare così impreparati, non possiamo avere una sanità così risicata.”

Poi, prima di chiudere la chiamata, Katia me lo ripete ancora una volta.
“Vuoi scrivere di noi? La paura devi scrivere.”

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