Peppino e il professore

L’amicizia tra Peppino Basile e Salvatore Carluccio è di quelle da libro Cuore. Lo stesso “professore” me la raccontò quando Peppino fu ucciso, nella notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008, davanti alla porta di casa sua. Lo raggiunsero alle spalle, in due, altri aspettavano in macchina. Lo accoltellarono più e più volte, prima che morisse per strada gridando aiuto invano. Resi pubblica la storia dell’amicizia tra Peppino e il professore nel libro “Il Sistema”, perché era giusto e perché lo stesso Salvatore me lo chiese, per rendere onore a quell’uomo così generoso e rude, che non voleva sentirsi dire “grazie”. Salvatore Carluccio, “il professore”, collaborò tantissimo con il Tacco per cercare nuove piste che facessero luce su quell’assassinio impunito di mafia. La sua morte ha spento una delle poche voci limpide che hanno chiesto fino all’ultimo respiro Verità e Giustizia per il “Masaniello” di Ugento. M.L.M.

 

di Thomas Pistoia

 

Era davvero forte, l’amico mio.
Ogni giorno, come dio lo mandava in terra, mi aspettava sotto casa, quasi fosse una cosa normale. Io una volta glielo dissi.
“Guarda che quello che fai non è normale”.
Lui si fece una risata e mi rispose: “Ma che dici? Non c’è problema”. Poi, come al solito, mi sollevò, mi sorresse e, piano, camminò con me.
Ho imparato da lui che essere amici significa scegliere di andare, insieme, alla stessa velocità.

Per le persone del paese, per i compagni e le maestre, per tutti quelli che ci vedevano passare, era lui che accompagnava me. L’amico mio invece si arrabbiava, quando scorgeva in quegli sguardi un malcelato e forse ipocrita moto di pietà. Allora diceva: “Sono dei fessi, non hanno capito che sei tu che guidi”. Poi cominciava a sfotterli per farmi ridere. E così, con quel suo braccio forte addosso, facevamo la salita e la discesa, la strada nuova d’asfalto e la più vecchia, polverosa. Il marciapiede e tante scale.
Quel tempo misurato da bambini passava sempre troppo in fretta, che dirci “a domani” era quasi un addio.
Ma il giorno dopo, no, lui era ancora là, con il suo braccio, che negli anni, spesso, me lo sono poi sentito attorno anche durante la sua assenza e in quei momenti l’ho pensato, sorridendo.

Era forte, l’amico mio. Non aveva paura di niente e anch’io, quando gli stavo vicino, diventavo più sicuro di me. Nessun bulletto di paese, neanche più grande d’età, avrebbe potuto nuocermi, con lui vicino.
Ho imparato così che essere amici significa provare, insieme, a non prendere troppe botte e a restituirle, comunque, più che si può.
Già.
Ma allora dov’ero io quella notte? Perché lui era da solo?
Lo so che non avrei potuto fare niente, che, anzi, probabilmente sarei stato solo d’intralcio, ma… magari avrei potuto urlare, chiedere aiuto.
No.

In un paese di sordi, non importa quanti stiano urlando. Nessuno sente.
L’amico mio, invece, ascoltava tutti. Tranne me.
Come in quel periodo in cui mi diedero la prima cattedra. Ero diventato un giovane professore, ma non avevo ancora un mezzo mio e la scuola era a quaranta chilometri da casa. Lui, che nel frattempo aveva messo su un’impresa edile, sapeva quanto sarebbe stato faticoso per me prendere il treno ogni giorno e fare quel tragitto. Quindi prese ad accompagnarmi in auto tutte le mattine. E se non poteva lui, mi faceva accompagnare da un suo operaio. Più o meno come quando eravamo bambini, insomma. E non mi ascoltava proprio quando io, di nuovo, gli dicevo: “Guarda che quello che fai non è normale”. Lui rispondeva che non c’era problema e, a volte, non rispondeva affatto.
Non mi ascoltava.

Anche quando… Quando, anni dopo, eletto nel consiglio comunale, cominciò a denunciare gli intrallazzi tra certi politici e certa altra gente; quando si mise a chiedere ad alta voce che fine avessero fatto alcune somme di denaro, o perché una spesa era divenuta più alta di quella preventivata; ma soprattutto quando mise gli occhi sullo smaltimento dei rifiuti e sulle discariche; quando prese a parlare di un “sistema” che se ne fotteva delle persone perbene e ne causava la morte per cancro pur di fare soldi; pure quella volta lì, pure quella volta lì, io glielo dissi.
“Guarda che quello che fai non è normale”.

Intendevo dire che stava toccando interessi economici di mafiosi, che stava rischiando la pelle e la stava rischiando per dei concittadini che, non tutti, ma la maggior parte, avrebbero taciuto, chinando il capo, non lo avrebbero seguito. Lo avrebbero perfino deriso.
Per poi lasciarlo solo

Dopo la sua morte, lo avrebbero rinnegato.
Quella volta non rispose come al solito, non disse “non c’è problema”. Ma non si fermò.
Quelli come lui non si fermano.

L’amico mio era troppo forte.
Per ucciderlo, dovettero prenderlo di sorpresa. E combattere. E pugnalarlo molte e molte volte.
Poi lo diffamarono e depistarono, perché il sistema, vigliacco com’era, lo temeva anche da morto.
Alla gente, ora che l’amico mio era scomparso, anche se non ero più un bambino, anche se avevo una mia auto, anche se, da decenni, ero divenuto un professore amato e stimato, sembrò che i suoi assassini mi avessero condannato a camminare da solo. E tutti cominciarono a guardarmi di nuovo con quell’espressione di finta e paesana pietà, come quando eravamo bambini.
Invece no. Solo, lui, non mi ha mai lasciato. L’amico mio è rimasto comunque sempre con me. Le sue idee me le sono portate dentro, mi hanno tenuto in piedi, anche quando è arrivata quella che in Salento chiamiamo “la malattia”, perché il nome vero ci terrorizza.
Ora sono qui, disteso in un letto e sento che non mi resta molto altro da raccontare.
Se vi dicessi che vedo l’amico mio, lì, sulla porta, che mi aspetta, voi non mi credereste. E invece proprio stavolta, proprio stavolta quello che sta facendo è normale.
Anche se adesso lo sto raggiungendo senza dolore e sento che finalmente posso muovermi e spostarmi senza problemi, lui, lo stesso, mi solleva e mi sorregge.
E sta per dire qualcosa, ma io lo interrompo subito, perché già so.

Sì, Peppino, hai ragione.
Non c’è problema.

Ora sì.
Non c’è davvero più

nessun problema

 

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