Mino De Santis, niente etichette

L'INTERVISTA. Il successo l’ha letteralmente travolto. Che cosa chiede alla musica? Di essere antica e nuova. E di dare un messaggio

Pochi giorni fa è stato ospite, come ambasciatore di musica, di un importante festival legato ai vini che si tiene in Trentino, lo “Skywine di Ala”. E nel suo futuro prossimo ci sono una tournèe in Svizzera ed una visita all’Università Bocconi di Milano. E’ proprio l’anno di Mino De Santis, cantautore salentino doc, che dopo il successo di quest’estate che l’ha consacrato quale voce da tenere presente sulla scena musicale salentina e non solo, adesso sta addirittura varcando i confini nazionali, trovando uno spazio tutto suo anche all’estero. De Santis è ironico e divertente, ma sempre con una punta di inquietudine. Ama “perdersi”, non tollera le etichette, soprattutto se attribuite da altri. Ed è al suo secondo lavoro discografico, “Caminante”, una produzione di “Ululati”, la nuova etichetta musicale di Cosimo Lupo Editore (il primo album si chiamava “Scarcagnizzu, vento dal basso”). Voce profonda e rauca, un viso che ricorda quello del Che, ed un modo di fare impertinente ed irriverente, la nuova scoperta musicale salentina si è guadagnata appellativi come “il conte salentino”. La sua “Zoccola” ricorda la “Boccadirosa” di De Andrè, ma con la potenza comunicativa del dialetto salentino, quello forte e crudo che non sempre trova facile trasposizione in lingua italiana. Qual è il suo primo ricordo legato alla musica? “E’ legato alla musica popolare. Nella mia famiglia si è sempre cantata la musica popolare, quindi io ce l’ho nella testa, nelle orecchie e nel sangue. Poi però c’è dell’altro, ci sono le esperienze fatte successivamente. Nella mia vita ho ascoltato tanti grandi cantautori italiani, De Andrè in primis, ma anche le ballate degli autori americani ed europei”. Come nasce l’idea di questo genere musicale che ricorda le ballate dei grandi cantautori, ma soprattutto l’idea di accostare ad esse il dialetto? “Quando uno racconta, racconta quello che pensa. E quando uno pensa in dialetto come me, racconta in dialetto. Se poi la base musicale non è quella della pizzica, credo che vada comunque bene. Io scrivo da quando ero ragazzo, prima ancora che la pizzica diventasse quel fenomeno di massa che è poi diventato, semplicemente quel tipo di musicalità l’ho sempre vista legata ai canti contadini, assolutamente al di fuori di tutto quel business che invece se ne è voluto creare”. Qual è la difficoltà più grande che si incontra facendo il suo mestiere? “Non ci sono difficoltà. Quando si ha la possibilità di suonare le cose che si scrivono, quali difficoltà ci possono essere? Le difficoltà sono altre nella vita: non avere un lavoro, non sapere come fare per tirare avanti…”. Quindi lei si sente un privilegiato, perché fa ciò che le piace fare? “Non proprio un privilegiato, perché ho l’abitudine di non dare a per scontato e definitivo. Penso sempre che oggi faccio questo e domani non lo so. Per ora lo faccio”. Nei suoi testi, fa spesso riferimento ad una religiosità finta ed artificiosa; poi, quando vuol scendere in profondità, descrive Gesù, come “il re delli bonacci”, aggiungendo peraltro “nde lu misera an croce”. Qual è il suo vero rapporto con la religione? “Non ho grandi rapporti con la religione. La Chiesa, in effetti, è presente in ogni momento della vita locale di paese, scandisce stagioni e periodi, con i suoi riti, le sue tradizioni, ‘le pompe ca face’. Poi invece ci sono Cristo e il suo Vangelo, ma un conto è la religione, un altro è la spiritualità e non è detto debbano coincidere”. Crede, in qualità di cantautore, di avere delle responsabilità circa il messaggio celato nei suoi testi? “Quando più una persona è pubblica, tanta più responsabilità ha. Il messaggio che vorrei comunicare è bisogna pensare con la propria testa, vedere la realtà per quella che è, senza preconcetti, crearsi delle idee proprie senza il ricorso a quelle preconfezionate da altri”. C’è una musa ispiratrice nella sua vita artistica? “Ce ne sono tante, ma non è facile indicare dei nomi. Sono idee, posti, mari e luoghi che ad un certo punto si concretizzano. La più grande musa ispiratrice rimane l’osservazione, dall’osservazione, dalla quale scaturisce il descrivere e il mettere in musica. Ogni giorno mi ripropongo di osservare con spirito critico ciò che mi circonda”. A proposito di osservazione critica, recentemente le sono state mosse delle accuse relativamente ad una sua espressione, un po’ colorita, per dire che il tamburello ha fatto suo tempo. Come risponde a queste accuse? “Le accuse mi scivolano addosso, perché non mi sento colpevole di alcunché. Io tengo tanto alla tradizione della mia terra, credo semplicemente che tutto quello che si è raccontato e che si continua a raccontare non debba essere utilizzato come sfondo o come ‘esca’ per svaghi vari che con la tradizione poco hanno a che fare. Bisognerebbe piuttosto sottolineare quello che c’è dietro ad una canzone di sofferenza, di lotta, di passione. Credo che si faccia troppa musica popolare in contesti inadeguati, quando invece è importante sì raccontare com’era il Salento, ma cercando di dire qualcosa di nuovo con altri linguaggi ed altre musiche. Io non mi sento affatto un’alternativa alla pizzica, alla musica popolare, io mi sento un completamento di quello che già c’è e che è giusto che rimanga”. Ci sono già progetti futuri, ai quali sta lavorando? “Ce ne sono tanti, ci campamu”.

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