LA STORIA DELLA DOMENICA. Taviano. Il sorriso di quella gente, senza a, gli è rimasto nel cuore. Ecco perché ritornerà in Africa. E’ la sua missione
TAVIANO – E’ un dottore galantuomo, vecchia maniera. Forse perché la sua carriera se l’è sudata. Lui, il primo figlio di contadini, a Taviano, ad aver conseguito la laurea. Lo contraddistinguono un aspetto serio e umile, due occhi colore cielo e un grande cuore. In paese è per tutti il dottor Stella; amico dei bambini e dei più umili, ai quali non chiede parcella dopo la visita. All’ospedale di Gallipoli, lavora da 30 anni nel reparto Cardiologia. Non toglietegli l’amore per il suo lavoro. Anzi, la sua missione. Gino Stella è tornato poche settimane fa dalla Tanzania, dove ha messo a disposizione, per la seconda volta, la sua professionalità a favore di poverissimi e malati. Ha conosciuto questa realtà ‘grazie all’amico Giovanni Primiceri, a capo dell’associazione di volontariato di Gallipoli, ‘Arcobaleno su Tanzania’, che opera tra il Salento e l’Africa ed ha finalità di solidarietà civile e sociale’. Il programma del viaggio dal 22 gennaio al 14 febbraio, prevedeva visite specialistiche presso gli ospedali di Dodoma, Itigi, Mikumi e al Villaggio della Speranza dove è operativo un dispensario. 15 giorni di puro volontariato e di valori autentici.

Il vaccino di una bambina Dottore, che cosa l’ha spinta a vivere un’esperienza così lontana dalla quotidianità? “Rispondo con le stesse parole che ho utilizzato l’altra sera, quando ho ricevuto un premio, totalmente inaspettato, a Melissano, consegnatomi nell’ambito di una festa di volontariato: quello che si fa non lo si fa per far vedere o per far sentire, ma perché si sente dentro, anzi quasi per egoismo, per il piacere interiore che si prova nel dare. Le volte in cui sono tornato dall’Africa, ho pensato di aver fatto il mio dovere umano; il volontariato è solo una goccia in un grandissimo mare di bisogno, ma siccome il mare è fatto di gocce allora credo si faccia bene a contribuire anche così”. Come è scattata la decisione di andare in Tanzania a prestare volontariamente e gratuitamente il suo operato di medico cardiologo? “E’ stata la voglia di constatare di persona le condizioni di questi popoli a spingermi ad andare fin lì. Mi sono chiesto che cosa veramente potessi fare per questi posti sfortunati del mondo. Stavolta siamo riusciti a contattare più ospedali, in realtà quei luoghi non si possono definire veramente ospedali”. Come si svolgeva la giornata in Tanzania? “Dalla mattina alla sera effettuavamo visite mediche con le nostre attrezzature, che abbiamo comprato e lasciato lì: l’elettrocardiografo, l’ecografo, strumentazioni che loro non sognerebbero neppure di poter avere. Io svolgevo attività di cardiologo, effettuando visite specialiste cardiologiche a pazienti (tra cui molti bambini) che si sospettava fossero affetti da cardiopatie e così abbiamo potuto fare diagnosi di cardiopatie congenite. I casi più toccanti sono quelli dei bambini con cardiopatie congenite, la cui sorte è infausta: se non li curi, muoiono”. Quali sono le condizioni di vita? “Sono precarie, non esiste la corrente elettrica. La Tanzania è abitata da 38 milioni di persone distribuite in villaggi, perché le città sono poche, le case sono costruite con sterco e terra coperte di paglia o eternit; adesso inizia timidamente a comparire il mattone di sabbia. Vivono nella terra, non ci sono strade, se non pochissime, le persone si spostano moltissimo a piedi per decine di kilometri, solo alcuni hanno la bicicletta. Vedevamo alcuni ragazzi in bici trasportare anche 80 kili di carbone, che usano per cuocere, per cucinare anche nei bar, presso i quali ci recavamo per prendere qualcosa da mangiare”. Vi è capitato di visitare delle scuole? “Ci è capitato di incontrare, in uno dei vari spostamenti da una località all’altra, lungo una strada sterrata piena di pozzanghere, due scuole in un tragitto di circa 70 km; i bambini le raggiungono a piedi. Le scuole sono pseudo edifici. Mi ha colpito però vedere che i bambini erano vestiti in maniera molto ordinata; ogni scuola ha una sua divisa. I bambini erano tutti magri, qualcuno zoppicava, ma tutti ci salutavano e sorridevano”. Che cosa mangiavate? “Quello che trovavamo quasi sempre era riso e fagioli”. E l’acqua? “Rigorosamente in bottiglia, altrimenti è pericolosissima”.

Gino Stella con alcuni volontari ed alcuni “pazienti” Che cosa le hanno lasciato quei bambini, quelle persone? E che significa tornare a casa dopo un’esperienza del genere? “Mi hanno lasciato un senso di dignità umana inimmaginabile. Questa volta ho visitato 180 persone; le attese sono lunghe per i pazienti, ogni giorno ce n’erano 20 o 30 che aspettavano di essere visitati nei vari ‘ambulatori’. Sedevano in silenzio, senza fare rumore, senza gridare, senza sgridare, senza chiedere a, e quando alle otto di sera, non ero riuscito a vederli tutti, andavano via in silenzio e tornavano il giorno seguente. I bambini sorridono molto più dei nostri, sorridono e salutano, tutti salutano, è una cosa bellissima. Poi torno in Italia e, per prima cosa, compro il giornale e leggo tutte le beghe politiche tra questo e quello e mi metto le mani tra i capelli e penso: com’è possibile? Noi viviamo di questo? Mentre c’è un mondo che muore, allora sento qualcosa che stride e mi viene da chiedermi: possibile che ad oggi ancora non esista un governo mondiale capace di legiferare sull’assistenza medica fondamentale e garantirla in tutti i Paesi del mondo? Non ci vorrebbe molto. Pensi che l’associazione ‘Arcobaleno su Tanzania’ di Gallipoli, guidata dal Giovanni Primiceri sta costruendo un ospedale in Tanzania, con soli 220mila euro; un ospedale intero che probabilmente inaugurerà ad ottobre prossimo e che poi verrà donato a delle suore che lo gestiranno e ospiterà prevalentemente donne e bambini. Grazie a questa esperienza, ho capito il grande spreco che vige nelle nostre società, cosiddette ‘civili’: spreco alimentare, ambientale, in tutti i sensi. Sprecare è togliere al prossimo e noi sprechiamo troppo e in tutto. Bisognerebbe dare gli strumenti di uno sviluppo sociosanitario, del lavoro, bisognerebbe poter fornire a questi Paesi le professionalità mancanti, gli Atenei europei potrebbero prendere in carica la formazione di qualche migliaio di studenti tanzaniani, africani eccetera in modo poi che possano tornare nei loro Paesi e migliorare quelle condizioni di vita”. Come si ‘muove’ l’associazione Arcobaleno? “Riesce a contattare numerosi centri di assistenza, contatta i medici e chiede la loro disponibilità; una volta ottenuta, organizza i gruppi e si parte tutti insieme per svolgere attività di volontariato, ma estremo volontariato, quello puro. Stavolta eravamo un gruppo in cui c’erano un’infermiera, una collega psichiatra, io e Giovanni Primiceri. Il viaggio è durato circa 12 ore. Una volta arrivati, c’era un pulmino pronto ad accoglierci all’aeroporto, un mezzo acquistato dall’associazione che ci è servito per percorrere 1.800 km per la Tanzania con le attrezzature appresso”. In termini concreti, il vostro contributo cosa ha portato? Diagnosi certe, cure? “Questa è la cosa che più mi duole, perché su 40 bambini ai quali ho diagnosticato cardiopatie, solo due sono riuscito ad operare, perché purtroppo non c’è un centro di cardiochirurgia in Tanzania. Se noi con 220mila euro riusciamo a costruire un ospedale, un governo mondiale non potrebbe costruire uno o due centri di cardiochirurgia dove servono? La verità è che ci devono essere degli oppressi per far sopravvivere gli oppressori. Un’ultima battuta la vorrei riservare alla Chiesa; il volontariato non deve essere legato all’evangelizzazione obbligatoria. Mi piacerebbe che diventasse più laico”. Se dovesse con una sola immagine restituire l’intera esperienza africana che ha vissuto in Tanzania, quale sarebbe l’istantanea che ne verrebbe fuori? “E’ l’immagine del volto di una donna, che ho anche fotografato, una giovane donna di ventisette anni, madre di tre figli, in scompenso cardiaco, che ho visitato uno dei primi giorni. L’ho ricoverata e le ho dato una terapia, chiedendo di poterla rivedere dopo pochi giorni. Quando l’ho rivista, l’ho trovata peggiorata e quando ho indagato mi è stato spiegato che non aveva fatto terapia, perché nonostante il ricovero, se non hai soldi per comprare da te le medicine, non ti curano. Così siamo andati a comprare i farmaci per trattarla e anche una scorta di medicinali (presi da una farmacia esterna), e dopo quattro giorni stava meglio. Ecco la fotografia: il suo bellissimo viso, di una donna sofferente, che non ha farmaci per curarsi.. In un mondo civile, si possono vedere queste cose? Mi sento quasi in colpa, impotente, perciò mi sento una goccia…”.

La fotografia della donna che, secondo il dottore, rappresenta la “sua” Tanzania Tornerà in Tanzania? “Avevo detto che non l’avrei fatto, ma penso proprio di tornare. Quelle persone hanno troppo bisogno e poi il loro sorriso è troppo accattivante”.
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