Accesso al credito. Mantovano incalza il Governo

Roma. Sempre più aziende in difficoltà per ottenere finanziamenti. L’ex sottosegretario chiede un tavolo permanente per analizzare le dinamiche dei flussi finanziari

ROMA – Il recentissimo Osservatorio sul credito per le imprese del commercio, del turismo e dei servizi, realizzato da Confcommercio-Imprese per l’Italia, ha evidenziato (e confermato) nell’ultimo trimestre del 2011 una tendenza già conosciuta: la difficoltà delle imprese a far fronte al proprio fabbisogno finanziario e ad ottenere finanziamenti dalle banche. Più precisamente risultano in aumento (dal 29,6% al 34,4%) le imprese che ottengono un finanziamento inferiore rispetto a quello richiesto ovvero non vedono totalmente accolta la loro richiesta e diminuisce (dal 55,8% al 49,8%) la quota di imprese che riescono a ottenere interamente l’aiuto richiesto. È inutile dire che gran parte di esse sono presenti nel Mezzogiorno. Negli ultimi giorni sul tema è intervenuto l’onorevole del Popolo della Libertà Alfredo Mantovano. L’ex sottosegretario agli Interni ha, infatti, inviato una lettera a tutti i prefetti della Puglia per richiedere l’attivazione presso le rispettive prefetture degli “Osservatori Provinciali sul Credito” al fine di far cessare l’impossibilità di accesso al credito, da parte delle piccole e medie imprese, nei casi in cui non ci sia alcuna motivata ragione che la giustifichi. E sulla necessità di affrontare il problema a livello nazionale Mantovano incalza: “Per quali ragioni Monti non costituisce un tavolo permanente tra Governo Nazionale, Abi, Banca D’Italia e rappresentanti degli istituti di credito operanti in Italia che, fungendo da osservatorio nazionale, analizzi le dinamiche dei flussi finanziari?”     In che cosa consistono gli osservatori regionali e provinciali del credito e quali benefici apporterebbero al rapporto, attualmente fortemente contrastante, tra imprese e banche? “Gli osservatori sono delle strutture varate circa tre anni fa dall’intero Governo nel momento in cui, all’avvio della crisi, vi fu da parte dello Stato un aiuto consistente di natura monetaria e finanziaria agli istituti di credito per fronteggiare tutto ciò che veniva da oltre Atlantico. In particolare, volendo riassumere in un solo concetto, lo scopo degli osservatori, per come sono stati concepiti, era quello di controllare e verificare che il sostegno dello Stato alle banche non si fermasse a quest’ultime ma andasse anche in direzione della tutela del risparmio e della possibilità di fare credito. Sul territorio tali osservatori sono stati interpretati in modo differente. Ne avrebbero dovuto fare parte i rappresentanti degli istituti di credito, Associazione Bancari Italiani e Banca d’Italia, le associazioni di categoria e le organizzazioni sindacali. Da almeno un anno però non funzionano più. A fianco a questa iniziativa che ha avuto carattere generale e ha riguardato l’intero territorio nazionale, il Ministero dell’Interno, me ne sono occupato personalmente quando ero sottosegretario, ne ha promossa un’altra più specifica, più circoscritta. E cioè la costituzione in alcune aree particolarmente a rischio, come Caserta, Napoli, Palermo ed anche Lecce, dei nuclei ristretti costituiti da funzionari di prefettura, rappresentanti di ABI e Banca d’Italia per valutare non in generale l’andamento dei flussi di credito, ma singoli casi di immotivato rifiuto di accesso al credito. Le faccio un esempio concreto. A Caserta un imprenditore edile, un giovane imprenditore, non aveva alcun problema di rischio bancario, nel senso che nel giro di cinque anni aveva avviato un’attività con la sua impresa ed era passato da un fatturato di mezzo milione ad un fatturato di tre milioni di euro, lavorando col pubblico e il privato. Il blocco c’è stato nel momento in cui ha ricevuto una richiesta estorsiva, l’ha rifiutata e c’è stata una bomba nel cantiere. Lui aveva messo in conto questa dinamica, i danni sono stati riparati dall’Ufficio del Commissario Antiracket. L’anomalia è stata nel fatto che tre giorni dopo l’esplosione di questa bomba la banca ha chiamato l’imprenditore intimandogli di rientrare nei mutui perché era considerato un cliente a rischio, anche se dal punto di vista strettamente creditizio non vi era alcun problema. E ha fatto in questo caso molto più danno rispetto a chi ha messo la bomba perché i danni della bomba sono stati riparati mentre la chiusura degli accessi al credito hanno provocato licenziamenti e contrazione di attività per un’impresa che era in fortissima crescita. Allora in questi casi specifici non si tratta di far fare ai Nuclei Ristretti la parte del giudice d’appello rispetto al mutuo negato perché ciò non compete certamente alla prefettura, bensì di prendere in considerazione quei rifiuti o restituzioni di credito che non hanno alcuna ragione plausibile. Quindi nel momento in cui ho preso iniziativa con i prefetti ho richiamato entrambe le esperienze. L’importante è che ci sia un luogo al di fuori dello stretto rapporto tra banche e cliente in cui poter parlare di un contesto che è obiettivamente complicato difficile e che non può essere lasciato ai criteri unilaterali molto rigidi imposti dalla banche”.      Affrontiamo il problema anche a livello europeo. Recentemente la Banca Centrale Europea ha messo a disposizione degli Istituti di Credito Italiani notevoli risorse al tasso di interesse, a dir poco risibile, dell’1%, con l’obiettivo anche di allargare le maglie del credito alle imprese. Allo stesso tempo la Commissione Europea ha anticipato al giugno 2012 l’entrata in vigore degli accordi di Basilea 3 che obbligano le banche ad innalzare i loro livelli di patrimonializzazione e capitalizzazione. E’ chiaro che conseguenza di tale accordo potrebbe proprio essere un ulteriore restringimento dei rubinetti del credito per le imprese. Non pensa ci sia un po’ di confusione anche a livello europeo?   “Non penso. Credo che le due cose vadano conciliate. Innanzitutto bisogna precisare che tra luglio e novembre 2011, in due differenti tranches, la BCE ha riconosciuto un prestito al sistema bancario italiano, al tasso da lei indicato dell’1% per complessivi 200 miliardi di euro. Stiamo parlando di una cifra enorme. Personalmente non vedo contrasto tra le due esigenze. Anzi se ne aggiunge anche una terza: quella del finanziamento del debito pubblico. Allora trovo assolutamente comprensibile che una parte di questo prestito sia utilizzato per la ripatrimonializzazione e quindi per risanare i conti degli istituti di credito. Trovo altrettanto comprensibile, anzi va anche bene, che un’altra parte sia utilizzata per acquistare titoli del debito pubblico, lucrando la differenza, perché si passa da un tasso di ricezione dell’1% a tassi di titoli del debito pubblico del 6-7% con l’attuale livello di spread o con quello che c’era fino a qualche settimana fa. Trovo invece ingiustificabile che 200 miliardi di euro nel giro di pochi mesi abbiano esclusivamente queste destinazioni e a queste non se ne affianchi una terza che è quella di non rendere l’accesso al credito un percorso ad ostacoli che, in molti casi, porta ad un vero e proprio muro insuperabile. La cosa assurda è che da una parte si prende questo denaro e lo si utilizza per il ripiano dei conti e l’acquisto di titoli pubblici dall’altro si irrigidiscono ancora di più le condizioni di credito”.   Ma se a livello europeo si impone alle banche di innalzare i livelli di capitalizzazione non diventa complicato che le stesse concedano credito alle imprese?   “In questi termini il ragionamento è di grosso respiro. È l’economia reale che fa sì che il denaro circoli nelle banche, non certo il gioco di carte della speculazione o dei titoli. Allora nel breve periodo io posso anche ricevere 100 e impiegarne 100, metà per la ricapitalizzazione e metà nell’acquisto di titoli. Ma nel medio-lungo periodo se non ho un fronte di economia reale che permetta di far circolare denaro, le conseguenze sono due: innanzitutto viene meno la funzione della banca che, trasformata in un mero ufficio, si limita a pagare i propri dipendenti senza avere relazioni con l’esterno; in secondo luogo una condotta del genere non garantisce una lunga vita alla banca perché poi alla fine la voce principale è la raccolta del risparmio. Se questa viene meno perché le aziende una per una cadono come delle pere mature a quel punto cosa resta da fare alla banca? L’ultima a cadere sarà la banca ma quella sarà la sua fine”.     Uno studio dell’Università di Padova, pubblicato recentemente, ha stabilito che in un’ottica di rilancio dei rapporti tra banche e imprese sarebbe opportuno che le banche nel concedere il credito tenessero conto non solo dei bilanci dell’ azienda richiedente ma anche dell’importanza che quest’ultima rivestirebbe all’interno della filiera produttiva di appartenenza. Tale approccio potrebbe rappresentare una delle soluzioni al problema?   “Sarebbe bello ma mi sembra tutto alquanto velleitario. Io mi accontenterei del fatto che oltre alla fotografia del bilancio ci fosse anche la proiezione di ciò che un’azienda potrebbe fare in un futuro più o meno prossimo. Per tornare all’esempio di prima, se c’è un imprenditore che in cinque anni ha decuplicato il proprio giro d’affari e si trova in una situazione di momentanea difficoltà l’ideale sarebbe che si considerasse la sua base occupazionale. Dubito però che una banca faccia questo. Detto ciò la banca potrebbe valutare positivamente, non sulla base di meri criteri contabili, la circostanza secondo cui se un’azienda è in progressione vuol dire che è un’azienda sicura, nonostante possa avere in un determinato momento dei margini di difficoltà che non vanno accentuati”.   Concorda sul fatto che le banche negli ultimi anni abbiano fortemente aumentato il loro potere anche a causa di una classe politica tendenzialmente immobile? Ad esempio l’ex premier Berlusconi e l’ex ministro Tremonti hanno spesso sottovalutato gli effetti della crisi facendo credere che tutto andasse bene e che non si corresse alcun pericolo. Adesso è in arrivo il Decreto Liberalizzazioni in Parlamento. Al suo interno sono previsti dei provvedimenti, a parer mio velleitari, per le banche. Sul tema, nel caso non venga apposta la fiducia sul decreto, presenterete degli emendamenti?   “Non condivido il presupposto della domanda. Anzi una delle ragioni per le quali il Governo Berlusconi è caduto è che in più di una circostanza ha cercato di arginare, in qualche modo, il governo della politica monetaria. E’ opportuno ricordare a tal proposito il conflitto che più di una volta c’è stato tra il precedente Governo e la stessa Banca D’Italia. Venendo alle liberalizzazioni Monti non è stato molto rassicurante sulla possibilità di ampia discussione. Anzi molte volte ha fatto riferimento ad una veloce conversione del decreto legge. Io tento di essere il più pragmatico possibile. Per quali ragioni Monti non costituisce un tavolo permanente tra Governo Nazionale, Abi, Banca D’Italia e rappresentanti degli istituti di credito operanti in Italia che funga da osservatorio nazionale, che funzioni veramente e che analizzi le dinamiche dei flussi finanziari? Sarebbe così molto più semplice analizzare le cause degli stessi flussi e si potrebbe avere un quadro maggiormente d’insieme. In questo modo ci sarebbe inoltre un Governo che non si dimostra estraneo di fronte alle dinamiche del mondo creditizio e che pur rispettando l’autonomia di quest’ultimo, prova a far sentite anche le ragioni della sostanza, della produttività, della crescita”.    

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