Borgo San Nicola. Battere sulle sbarre per farsi sentire

Lecce. La protesta delle detenute presso il carcere di Lecce. Contro chi le ha condannate, prima del tempo, ad essere “casi” e non persone, numeri di faldoni che le identificano con il resto commesso

LECCE – Battere sulle sbarre della cella per farsi sentire. E così, se da fuori, dal mondo esterno a quello del carcere, la voce delle detenute non la sentono, quel tintinnìo, che può diventare pure rumore assordante, sì. Le detenute del carcere di Lecce protestano. Ancora una volta si sentono dimenticate. Si sentono abbandonate, chiuse tra pareti che delimitano uno spazio che toglie il fiato ed anche la voglia di guardare al futuro. Casi giudiziari, faldoni che prenderanno polvere sulle scrivanie e sulle librerie degli avvocati e dei giudici di turno, reati e non persone. Questo sarebbero, agli occhi degli altri. Agli occhi degli abitanti il “mondo dei vivi”. Ed allora chiedono maggiore considerazione, un’esistenza che vada al di là dello sbaglio commesso, non rifiutando di pagare per ciò che hanno fatto. Ma chiedono la possibilità di essere considerate persone, esseri umani, donne, prima che numeri di pratiche da archiviare, ovvero da buttarsi alle spalle per non pensarci più. Riportiamo di seguito una lettera inviata alla nostra redazione dalle detenute presso il carcere di Borgo San Nicola di Lecce. Sotto accusa è l’intera società che le ha etichettate e poi le ha dimenticate, non curandosi neppure di verificare che cosa ci sia dietro lo sbaglio compiuto. Oramai cos’è la “battitura” è inutile spiegarlo, siamo certi che lo sanno tutti, viste le numerose volte in cui l’abbiamo praticata! Ennesimo tentativo di farci ascoltare, probabile fallimento. Torniamo a farci sentire dal mondo dei “sepolti vivi” come possiamo. A questo è ridotta la nostra comunicazione, ad uno sbattere contro le inferriate delle gabbiette 3×2. 3×2 non sono i metri delle celle, ma i passi che riusciamo a fare, ovviamente a turno. Questo non è dovuto alla cattiva gestione da parte delle varie direzioni italiane. Ci teniamo a precisarlo. Le poche e splendide iniziative che con molte difficoltà riescono a promuovere in alcune carceri, tra cui Lecce, restano delle gocce in un oceano di indifferenza ed ostruzionismo. La diretta responsabilità è di altre istituzioni. Quelle a cui conviene cedere e non sentire, quelle che sanno perfettamente le condizioni degli istituti di pena quali sovraffollamento, scarsità di risorse economiche, carenza di personale, sia quello preposto alla custodia che quello preposto al trattamento, malfunzionamento di una parte della magistratura, colpevolista e restia ad applicare le misure alternative utilizzando le strutture carcerarie come grandi discariche. I problemi quotidiani tanto restano ai direttori, agli agenti di polizia penitenziaria, agli operatori sociali e soprattutto a noi e alle nostre famiglie, quali consumatori finali di iniquità e giustizialismo. Sono tutti contrari alla pena di morte ma, pare, favorevoli alla continua tortura. Nei pubblici discorsi abbondano parole quali recidiva, soggetti devianti, comportamenti antisociali e principi di reinserimento e rieducazione grazie al loro “immediato e pronto intervento”. Ci chiediamo cosa resta da civilizzare dopo averci demolito nella mente, nel fisico e nell’anima. La triste e ancor più grave realtà non è l’averci rinchiusi dietro le sbarre ma l’aver ridotto le nostre vite a dei fascicoli chiusi, in polverosi scaffali. Noi abbiamo commesso il reato, ma non siamo il reato. Il pensiero inespresso dei molti, la cui coscienza sociale, nella migliore delle ipotesi dorme, è forse quello che il nostro status dentro e fuori è di cause perse in partenza. A chi ha palesato tutto ciò attraverso indifferenza e “porte chiuse”, chiediamo il coraggio di scrivere fine periodo detentivo, fine pena mai. Se c’è chi vuole replicare e dimostrarci il contrario (lo vorremmo tanto), noi siamo qui. Purtroppo. Le detenute tutte Della sezione femminile Comuni e alta sorveglianza Carcere Borgo San Nicola Lecce

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