Buonsanto, bronzo al premio ‘Giornalisti del Mediterraneo’

La giornalista è stata premiata al concorso internazionale con l’articolo “Regina di nome, schiava per forza” pubblicato sul Tacco d’Italia di maggio 2010

Terza edizione del premio internazionale Giornalisti del Mediterraneo. A Maria Buonsanto la medaglia di bronzo del Corpo Consolare di Puglia, Basilicata e Molise per la sezione “Donne e integrazione sociale”. La giornalista si aggiudica la vittoria con il servizio “Regina di nome, schiava per forza” pubblicato nell’inchiesta del Tacco d’Italia “Schiave per sesso” del maggio 2010. Un articolo che, attraverso la storia di “Queen”, una ragazza africana comprata per 50mila euro e costretta a vendere il suo corpo, ripercorre una delle “rotte della tratta”, quella mediterranea, che dall’Africa arriva alle strade italiane. Ben 107 i lavori ammessi al concorso con una nutrita rappresentanza di giornalisti dell’area dei Balcani e della Spagna. Di rilievo la partecipazione dei cronisti italiani, a rappresentare le più importanti testate nazionali: Ansa, Corriere della Sera, L’Espresso, Rai2, La Gazzetta del Mezzogiorno, Rete4, La Repubblica, Italia Oggi, Marie Claire, Europa, Antenna Sud, Famiglia Cristiana, Il Giornale, Il Fatto Quotidiano, La Stampa, Sky Tv, Panorama, La Nazione, Il Riformista, Vanity Fair, solo per citarne alcune. L’evento, in partnership con Europuglia, portale di promozione delle attività e dei progetti del Settore Mediterraneo della Regione Puglia, gode del patrocinio della Presidenza del Parlamento Europeo, dell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo, delle Ambasciate di Romania, Turchia, Polonia, Spagna, Portogallo, Ungheria, Marocco, Paesi Bassi, dell’Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo della Regione Puglia, del Corpo Consolare di Puglia, Basilicata e Molise e delle città di Napoli e Bari. Riceveranno il premio “Caravella del Mediterraneo” i giornalisti Giuseppe De Tomaso, direttore responsabile della Gazzetta del Mezzogiorno; Luigi Contu, direttore dell’Agenzia Ansa; Riccardo Iacona, conduttore del programma di Rai3 Presa Diretta; Daniele Mastrogiacomo, inviato di guerra del quotidiano La Repubblica; Gabriele Torsello, giornalista e fotoreporter freelance; Aldo Sofia, giornalista della RSI (Televisione Svizzera Nazionale); Gino Falleri, segretario aggiunto della Federazione Nazionale della Stampa;padre Gianfranco Grieco, già inviato de “L’Osservatore Romano” al seguito di Giovanni Paolo II. Premio alla memoria a Pietro Virgintino, giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno. Continua intanto il lavoro di Maria, assidua collaboratrice del Tacco, per la diffusione delle tematiche afferenti i processi di integrazione tra le due sponde del Mediterraneo. Sarà, infatti, reporter di MediterRaid – Rai Nuovi Media: un'odissea moderna alla ricerca del futuro digitale del Mediterraneo. 60 giorni e 22 mila km per navigare nella cultura digitale del Mediterraneo attraverso clip quotidiane che andranno in onda dall’1 giugno al 30 luglio sul portale Rai.it. Riportiamo di seguito l’articolo premiato // “Regina” di nome, schiava per forza / la storia di “Queen”, una ragazza africana comprata per 50mila euro e costretta a prostituirsi /// “Per venire in Europa dovevo pagare 50mila euro. Solo dopo ho scoperto che avrei dovuto guadagnarli, vendendomi. Ma era troppo tardi” /// Queen lavorava 17 ore al giorno, tutti i giorni senza tregua, mai. Controllata a vista da una “maman” che le strappò via i capelli di Maria Buonsanto Queen, un nome comune tra le prostitute africane. È così che vuole essere chiamata la ragazza che ha deciso di raccontarmi la sua storia. Un nome che possa permetterle di non essere riconosciuta. Di lei non racconteremo particolari che possano permettere di risalire alla sua identità: rischierebbe la vita, perché i suoi aguzzini sono sulle sue tracce. Non solo non diremo il nome, dunque, ma neanche l’età e la nazione di provenienza. La storia di Queen inizia poco più di tre anni fa. Costretta a migrare dall’Africa per assicurare alla sua famiglia un futuro migliore, arriva in Italia con la promessa di un lavoro onesto. Ad attenderla, invece, una vita da schiava. Dopo due anni di abusi ha trovato il coraggio di denunciare il suo carnefice ed oggi vive a Lecce, in protezione sociale, grazie al progetto ‘Libera’. Una storia, quella di Queen, drammaticamente simile a quella di tante ragazze che battono le strade italiane e che genericamente definiamo ‘prostitute’, senza alcun distinguo. Delle differenze, invece, ci sono. C’è una prostituzione non scelta, non voluta. Il suo nome è tratta e Queen ne è stata vittima. Queen, perché sei migrata? “Per cambiare vita. Per stare meglio. Per avere maggiori possibilità di lavoro ed aiutare la mia famiglia. Mia madre è malata di cuore e mio padre, mentre frequentavo il secondo anno di Università, cadde in rovina. Soffrii quando fui costretta a lasciare la scuola, ma ancor di più stetti male per i miei fratelli più piccoli. E così decisi che avrei dovuto fare qualcosa per aiutarli, per garantirgli un’istruzione. Volevo lavorare duro”. Come sei diventata vittima di tratta? Come funziona questo mercato? “Una donna del mio paese, in Africa, mi propose di partire in Europa per lavorare come assistente in un negozio. Ne ero entusiasta. Ringraziai Dio di avermi dato questa possibilità proprio quando ne avevo più bisogno. Mi disse che aveva un grande negozio di oggetti africani e che necessitava di un aiuto perché era sempre in viaggio. Venne a casa per conoscere la mia famiglia e rassicurò i miei genitori dicendo che si sarebbe occupata di me, che mi avrebbe fatto da tutrice. La parola prostituzione non fu mai pronunciata durante i preparativi per il viaggio. Una cosa però mi suonò strana. Mi disse che avrei dovuto pagare 50mila euro per arrivare in Europa e, visto che la mia famiglia non disponeva di una tale somma, ci accordammo di estinguere il debito attraverso il mio lavoro. Allora pensavo veramente che fare la commessa in Europa potesse ripagare un debito di 50mila euro”. Che cosa ricordi del tuo viaggio? “Nel dicembre 2006 partimmo per Lagos dove, con mia grande sorpresa, ad aspettarci c’erano moltissime altre ragazze. Ma anche in quel momento non capii. Il giorno dopo arrivammo a Madrid in aereo. Mi consegnarono un passaporto italiano falso. Lasciammo in Spagna alcune delle ragazze e partimmo per Parigi, dove ne lasciammo altre. Io ed altre cinque fummo condotte in Italia. Ci separarono, vendute tutte a protettrici (maman) diverse. Io fui mandata in Umbria, dove diventai schiava di una donna africana. Erano i primi giorni del 2007. L’inizio di un nuovo anno per gli altri. Per me, la fine delle mie illusioni”. Cosa è accaduto al tuo arrivo in Umbria. Quando hai realizzato ciò che stava accadendo hai provato a ribellarti? “Arrivata in Umbria ormai avevo capito tutto. Ma era troppo tardi. Indietro non si poteva tornare. Mi sequestrarono il passaporto. Non avevo soldi per tornare in Africa e, anche se li avessi avuti, provavo troppa vergogna. La mia famiglia non sarebbe più potuta uscire di casa. Quando una ragazza decide di partire per l’Europa è una scelta senza ritorno. È per questo che i miei genitori non erano d’accordo, perché secondo loro le ‘europee’ – è così che vengono chiamate le donne del mio paese che vivono qui – sono solo portatrici di lacrime e sventura. Ci sono ragazze che, partite a sedici anni, in un paio di anni riescono a costruire ville enormi per i loro genitori. Questo era quello che volevo fare anch’io, volevo renderli orgogliosi. Non avrei mai pensato di dover pagare un prezzo così alto. Se fossi tornata in Africa tutti li avrebbero additati. Chissà cosa avrebbero detto di noi. E poi c’era sempre il debito di 50mila euro che dovevo pagare alla ‘mum’ (è così che voleva essere chiamata la trafficante che mi aveva convinta a partire). Ed i primi a farne le spese sarebbero stati proprio i membri della mia famiglia. E così mi rassegnai. Inizialmente piangevo, provavo orrore. Poi ci si abitua e si diventa furbe. Si impara, quando si può, a prendere in giro il cliente, a simulare soltanto la penetrazione. Si prega di non essere scoperte – a tante hanno rotto la testa per questo motivo – e si va avanti”. Cosa ti ha poi condotta in Puglia? “Dopo qualche mese iniziai ad avere problemi con la maman. Era una donna terribile e non sopportava che difendessi le ragazze più giovani. Così decise di sbarazzarsi di me e fui venduta ad un gruppo di donne africane che vivevano a Bari”. In quali condizioni eri costretta a prostituirti? “Mi prostituivo per strada. Venivo accompagnata ogni giorno al ‘mio’ marciapiede da una di queste donne. Venivo controllata in tutto: quello che facevo, come mi truccavo, il numero di clienti che incontravo. Tutto veniva registrato. Lavoravo dalla mattina alla sera – la mattina dalle 9 alle 17 e la sera dalle 19 alle 04. Ero esausta, spesso crollavo a letto distrutta. Nessuno aveva pietà di me, né le maman né gli uomini. Lavoravo in tutte le condizioni. Se pioveva a dirotto non potevo ripararmi perché erano proprio quelli i momenti in cui la maman faceva più giri di controllo per vedere se ero al mio posto. Lavoravo malata, lavoravo con le mestruazioni, lavoravo dopo esser stata picchiata un’intera nottata dalla maman. Non importava a nessuno e per i clienti non era un problema”. Era la maman a gestire il denaro che guadagnavi? “Quasi tutto finiva nelle sue tasche perché per prostituirti devi pagare. Il mercato funziona così e le mie spese erano altissime: 1000 euro al mese per il pezzo di marciapiede dove aspettavo i clienti e altri 1000 per le spese di affitto, luce, gas e cibo. Dormivo in casa della maman, in cucina. Ogni domenica, poi, dovevo dare 1.500 euro come rata del debito di viaggio (i famosi 50mila). In tutto 8mila euro al mese. Ciò che rimaneva lo inviavo alla mia famiglia, anche se era proibito”. Perché dici che era proibito? Quali regole ti venivano imposte oltre quelle della strada? “Durante il periodo di estinzione dei miei debiti non potevo inviare privatamente soldi a casa altrimenti avrei pagato una multa di 5mila euro. Non potevo entrare in nessun luogo pubblico, neanche per mangiare. Non potevo chiamare in Africa, se non in loro presenza. Tutto quello di cui avevo bisogno mi sarebbe stato acquistato perché da sola non potevo andare a fare compere. Era assolutamente vietato avere fidanzati, soprattutto africani. Infine, non avrei mai dovuto rivelare in caso di fermo da parte delle forze dell’ordine il nome della mia maman. Non ho mai rispettato nessuna di queste regole”. Hai, quindi, denunciato la tua maman alla polizia? “Sì. Una domenica non riuscii a pagare la mia quota di debito. Quando succedeva bisognava pregare che Dio avesse pietà di te. Quel giorno non la ebbe. Si infuriarono e mi aggredirono per strada. Una di loro mi strappò tutti i capelli. Mi ritrovai con la testa piena di sangue e tutti i miei capelli nelle sue mani. Ci mise tutta la forza che aveva in corpo. La paura ed il dolore furono così forti da non farmi pensare più a niente. Chiamai il 112 per farmi portare in salvo”. È stata, quindi, la disperazione a permetterti di liberarti dalla tua condizione di schiavitù? “A quel punto si trattava di scegliere tra la vita e la morte e tutte le altre paure, le minacce, il debito, il terrore che potessero farmi il rito voodoo sparirono. Pensai solo a mettermi in salvo”. Di quale rito voodoo parli? “Mi rendo conto che per voi europei è difficile da capire, ma in Africa ci sono cose che vanno al di là della logica, dell’istruzione o dell’educazione che hai ricevuto. Ci sono cose a cui si crede. Punto e basta. Appena arrivata dalla maman c’è un’operazione che ogni prostituta africana è costretta a fare. Ti chiedono di spogliarti e ti danno un rasoio e delle forbici. Poi ti costringono a tagliarti le unghie delle mani e dei piedi, i peli pubici ed i capelli. Consegni tutto insieme agli slip che hai indosso. La maman “prende in ostaggio” queste cose minacciandoti di praticarti un rito voodoo capace di farti impazzire, di toglierti l’anima. Ho visto delle ragazze a cui era stato praticato suicidarsi, buttarsi sotto un camion senza alcun motivo”. Nonostante questo hai comunque trovato il coraggio di opporti. Cosa è successo dopo esserti rivolta alle forze dell’ordine? “Fui portata in ospedale, raccontai tutto e lei fu arrestata. Dopo fui trasferita a Roma, nel Cpt di Ponte Galeria come immigrata clandestina e non come vittima di tratta. A Roma mi dissero che sarei stata rimpatriata. Invece così non fu. Entrai in regime di protezione sociale grazie al progetto “Libera”, presso cui oggi sono in carico, e fui condotta a Lecce”. Quali sono gli ostacoli maggiori che hai trovato lungo il cammino verso l’emancipazione, l’indipendenza di poter scegliere chi essere e cosa fare del tuo corpo? “I pregiudizi. I tuoi e quelli degli altri. I pregiudizi di genere, quelli di razza. Ma anche i pregiudizi che tu stessa hai nei tuoi confronti. È un ‘lavoro’ che ti entra nel sangue. Ti porta persino a dubitare di poter fare qualcos’altro. E poi ci sono i soldi. Sei abituata a guadagnare 2/3mila euro a settimana e ti ritrovi a non avere più i soldi per mangiare. Ci vuole molto coraggio e soprattutto bisogna volerlo. Si deve riuscire a capire che non è mai troppo tardi per cambiare. Se non si pensa così non ci si toglie più dalla strada. E si convincono altre a finirci”. Da vittime si diventa così carnefici? “Spesso succede. Tante ragazze perdono la speranza di ritornare ad essere libere e decidono di passare dall’altra parte. Dopo un paio d’anni di strada o per estinguere il debito nei confronti della maman fanno arrivare dai loro paesi altre ragazze, con la promessa di un futuro migliore. E così il ciclo ricomincia e loro stesse diventano maman”. Che legame hai con le donne che sono rimaste nel tuo paese? Con le tue amiche, le tue sorelle e tua madre. Cosa hanno saputo della tua esperienza? “Se mia madre sapesse ciò che mi è successo morirebbe. Invece a mia sorella ho detto tutto. Avrei subito qualunque umiliazione per risparmiare a lei quello che ho passato io. L’ho voluta mettere in guardia. Avrei voluto che qualcuno lo avesse fatto con me”. Come guardi al futuro? “Questa esperienza sarà sempre presente. Ha ucciso quella che ero, ma spero ancora di poter tornare a studiare, di finire in Italia gli studi che avevo iniziato nel mio paese e di diventare quello che avevo sognato. Ho ancora speranza”. Leggi il Tacco d’Italia di maggio 2010

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