Colitti jr: sentenza attesa per le 23

E’ il giorno della verità, almeno quella processuale, per Vittorio Luigi Colitti, il diciannovenne accusato, in concorso con il nonno, dell’omicidio di Peppino Basile, il consigliere dell’Italia dei Valori assassinato a Ugento la notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008. Con le repliche di accusa e difesa è calato, di fatto, il sipario sul processo iniziato il 12 maggio scorso. Alle 10.50 i giudici (presidente Aristodemo Ingusci e a latere Lucia Rabboni) si sono ritirati in camera di consiglio per emettere un verdetto quanto mai atteso, che dovrebbe essere pronunciato nella serata di oggi. Nella breve replica il pubblico ministero Simona Filoni ha ribattuto punto su punto alle contestazioni mosse dagli avvocati Francesca Conte e Roberto Bray nelle rispettive arringhe, sostenendo, ancora una volta, l’assoluta attendibilità della bimba che avrebbe assistito all’omicidio, di cui resta “il dato incontrovertibile e insuperabile della dinamica narrata”. La baby-testimone, del resto, rimane uno dei punti cardine dell’intero processo, su cui far ruotare, in base al fatto che la si ritenga attendibile o meno, gran parte dell’ipotesi accusatoria. Per il pubblico ministero assolutamente credibile è anche la testimonianza di Sarika Rappon, l’amica della vittima che ha raccontato dei conflitti tra Colitti senior e Basile. “Vecchi conflitti e dissapori accumulatisi per anni – spiega la Filoni – che formano un movente”, proprio come nel caso del delitto di Erba, in cui il pianto di un bambino diventa l’impulso di una strage. E poi quel “commare Tetta”, urlato da Basile (esclamazione confermata in dibattimento), che prova, secondo l’accusa, che la donna sopraggiunge sul luogo del delitto e vede marito e nipote colpire Basile. La vittima chiede il suo aiuto perché solo lei può aiutarlo e fermarli. Quindi, contrariamente a quanto sostenuto fino a oggi, la nonna dell’imputato avrebbe assistito all’omicidio. L’avvocato Bray ha puntato il dito, ancora una volta, contro gli inquirenti: “Non spetta alla difesa l’onere della prova, così come non si può accusare il collegio difensivo delle evidenti lacune emerse nelle indagini”. Per i legali di Vittorio Colitti, al di là della credibilità e della suggestionabilità di una teste di poco più di cinque anni, la bimba non può aver visto l’omicidio, semplicemente perché la finestra della sua cameretta era chiusa. Bray ha concluso il suo breve intervento paragonando i giudici alla Parche: “A voi spetta il compito di continuare a tessere o recidere il destino di una giovane vita”. L’avvocato Conte, invece, ha spiegato come sia proprio il movente l’elemento più debole dell’intero processo. Nessuno dei testimoni, infatti, parla di contrasti tra la famiglia Colitti e Basile, se non la Rappon. “E’ un movente che non regge – ha dichiarato a voce alta la nota penalista salentina – che non ha nessun riscontro se non nella congettura accusatoria”. “Questo – ha concluso la Conte – non è il processo dei processi. E’ un processo per omicidio in cui si decide il destino di un 19enne, per giunta minorenne all’epoca dei fatti. In ogni caso siamo convinti che saprete fare giustizia”. Giù il sipario, dunque, su un processo che come spesso accade ha proiettato sul palcoscenico di un’aula di Tribunale, la storia, i vizi e le virtù di un’intera collettività. La morte di Peppino Basile, il muratore divenuto politico, metà Masaniello e metà Don Chisciotte, uomo dalle mille battaglie, osteggiato e spesso deriso, è sembrata quasi un peso fastidioso per la comunità ugentina e non solo. Quello sull’omicidio di Peppino Basile è diventato, udienza dopo udienza, molto più di un processo. Un viaggio attraverso il substrato sociale di un Sud profondo e pieno di contraddizioni, in cui la verità sembra cambiar forma in ogni istante. Un viaggio alla scoperta della vita di un piccolo paese del basso Salento, pieno di silenzi e verità sospese a metà. Non sono bastate 25 udienze, centinaia di ore di dibattimento e decine di testimonianze per squarciare il velo di silenzi e omertà che da subito è calato sull’omicidio. Un processo che si è trasformato nel viaggio a ritroso dentro il ventre di un Salento arcaico e di una terra che Sciascia avrebbe descritto proprio come la sua Sicilia: “Abbondante e povera, omertosa e pettegola, gioiosa e disperata. La terra del paradosso. Del sistema stravolto, anzi capovolto. Come se una civetta uscisse a volare di giorno”. Rimangono, oltre ogni sentenza e ogni verdetto, le verità nascoste di chi ha visto e ha taciuto, di chi pur sapendo non ha parlato, di chi ancora considera la legge come una rete fastidiosa in cui è troppo facile e scomodo rimanere impigliati. L’omicidio Basile ricalca alla perfezione il più classico dei copioni di quella provincia addormentata dove il delitto sembra la più semplice delle cose. Quelle coltellate e quel sangue rimangono, però, una ferita aperta nella voglia di giustizia e verità di tanta altra gente che non vuole dimenticare.

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