Per l'ex sindaco di Casarano, Istituzioni, imprese, sistemi bancario e universitario sono i responsabili della tragica situazione economica
Il punto di vista del Responsabile Dipartimento Economia e Sviluppo Locale del Pd salentino ed ex sindaco di Casarano, Remigio Venuti: “contro la crisi non serve moltiplicare i tavoli ma individuare una precisa interlocuzione mirata, un'unica linea d'azione capace di definire le strategie a medio termine e di attuare le azioni necessarie”. — “Dalla vicenda Bat a Lecce al recentissimo annuncio di Antonio Sergio Filograna sull’intenzione di mettere fine alle attività di Zodiaco e TecnoSuole, questi ultimi mesi del 2010 si preannunciano per quello che tutti gli indicatori lasciavano presagire: un colpo mortale alle economie del Salento e una messa alla prova delle già deboli situazioni imprenditoriali. Ho abbastanza memoria e conoscenza di crisi antiche e recenti, di relazioni istituzionali, di dinamiche territoriali, per sapere quanto ogni singola crisi con relativa minaccia di esuberi e delocalizzazioni che guadagni le pagine dei giornali sollecita, con puntualità svizzera, attenzione corposa. Sono questi i momenti in cui si moltiplicano manifestazioni di grande preoccupazione, annunci di tavoli di concertazione, task-force per l’occupazione, unità di crisi, ipotesi di accordi di programma, riunioni programmative ad ogni livello nelle quali puntualmente si elaborano ricette che, nella quasi totalità dei casi, si rivelano alla lunga ineffettuali. La crisi del modello di sviluppo che abbiamo conosciuto e delle nostre imprese non può, ogni volta, coglierci di sorpresa, né ogni volta possiamo guardarla con occhi trasparenti, come se non fosse già in agguato negli anni ’90, esplosa nel decennio successivo, rafforzata dalla globalizzazione delle economie e dalla speculazione finanziaria internazionale, aggravata da una debolezza soggettiva del sistema-impresa territoriale che, alle evidenti oggettive difficoltà di mercato, non ha saputo reagire con scelte strategiche valide e tempestive, costretto a sperimentare, ancor più drammaticamente di un tempo, quanto sia complicato fare azienda in un ambiente il più delle volte indifferente, a volte ostile, spesso inefficiente e destrutturato. Non giova a nessuno trascurare che la globalizzazione, la bolla finanziaria, la divisione internazionale del lavoro hanno colto questo territorio, e buona parte del Sistema-Italia in verità, totalmente impreparati, nella difficoltà di elaborare risposte efficaci e rapide. La combinazione “impresa – territorio”, asse portante delle teorie sui fenomeni distrettuali e sullo sviluppo locale, qui non ha funzionato come avrebbe potuto e dovuto e, più che in altre parti d’Italia, l’economia territoriale ha manifestato tutti i suoi limiti. Mi sottraggo, per formazione e competenze, dall’immaginare anch’io un nuovo modello di futuro ricordando, a me ma anche a tutti noi, che solo nelle economie pianificate si è tentato di disegnare su carta e attuare modelli di sviluppo di medio – lungo termine, i cui risultati conosciamo fin troppo bene. Credo invece necessario, all’interno di un ragionamento in cui però il tema del futuro e del nuovo modello di sviluppo si saldino con forza, affrontare con pacatezza, ma senza infingimenti, il tema delle responsabilità, poiché esistono scale di responsabilità precise e individuabili a cui fare riferimento nel tentativo di comprendere natura e cause della crisi e provare a risolverle. Sono responsabili le imprese, quando non definiscono strategie basate sull’innovazione e ricerca, sull’internazionalizzazione, sul rafforzamento patrimoniale, sulla crescita dimensionale (singola o di gruppo). E’ responsabile il sistema bancario, quando adotta come unico parametro di valutazione la consistenza patrimoniale della singola impresa, per cui si concede credito a chi può garantire e lo si nega a chi, pur in possesso di una buona idea o di un ottimo piano industriale, non ha beni o risorse da utilizzare. E’ responsabile il sistema universitario e della ricerca, quando rimane avulso dal sistema territoriale e dalla domanda spesso non articolata di sapere che le aziende manifestano, e non così testardo nell’innestare nel territorio quegli elementi di trasformazione necessari a produrre il bisogno della trasformazione e del cambiamento. Sono, di certo, e prioritariamente, responsabili le Istituzioni a cui viene affidato il compito, delicatissimo, di sostenere i sistemi d’impresa gestendo risorse finanziarie ingentissime. Ovviamente, è una geografia a macchia di leopardo, e le eccezioni esistono. La gravità della situazione imporrebbe però che le eccezioni divenissero senso comune, condiviso, collettivo, e non rimanessero delle mosche bianche. Pensiamo un attimo alle politiche regionali dei due ultimi decenni. Politiche d’intervento complicate, caratterizzate da duplicazioni e frammentazioni delle azioni poste in essere; strumenti anacronistici, vischiosi e incerti nei loro effetti; tempi d’azione certi nella loro incertezza. Invece di concentrarsi su pochi strumenti, semplici ed efficaci, individuati sulla base delle esperienze di successo, ogni tornata amministrativa ne ha predisposti sempre di nuovi quando ancora quelli vecchi non avevano terminato il loro ciclo di vita. Elencarli è impresa ardua: contratti di programma, patti territoriali, contratti di localizzazione, start up, zone franche, pacchetti integrati di agevolazione, progetti integrati territoriali, progetti integrati settoriali, accordi di programma quadro, distretti tecnologici, distretti produttivi, sistemi turistici locali e sistemi turistici territoriali, sistemi ambientali e culturali, programmazione strategica di area vasta, e chi più ne ha più ne metta. Abbiamo vanificato le esperienze di successo, che pure ci sono state e andavano sostenute con maggiore orgoglio e più consapevolezza della reale posta in gioco (lontana anni luce dalle vis furibonde e inutili delle faide partitiche), poiché all’interno dei quadri di riferimento nazionali e regionali non abbiamo dato loro continuità, e non abbiamo concesso il giusto tempo per radicare le trasformazioni e il mutamento che pure avevano iniziato a tratteggiare concretamente. E abbiamo confuso gli strumenti di programmazione e trasformazione, come la pianificazione strategica, in strumenti negoziali, all’interno dei territori e tra i territori e i livelli sopra ordinati. Il risultato, anche questo sotto gli occhi di tutti, è che strumenti come i Piani strategici e le dieci Aree Vaste rischiano di essere svuotati di senso e depotenziati, mentre potevano e dovevano costituire una leva formidabile per la crescita dei territori, la trasformazione delle economie, la maturazione delle classi dirigenti, e un banco di prova per la nascita di nuova classe dirigente e di nuovi saperi territoriali. Soprattutto, se legati ad una visione organica dello sviluppo economico, potevano divenire, e possono ancora se siamo in grado di invertire la rotta, una leva per l’attrazione di investimenti ad altissima e qualificata ricaduta territoriale. I sindaci dei Comuni capofila, ma più in generale le istituzioni territoriali e le reti partenariali hanno, rispetto a questo tema, una responsabilità enorme, e il dovere di far funzionare al meglio le occasioni di cui sono garanti. Lo ricordo perché quello di cui abbiamo bisogno non sono nuovi strumenti, ma la determinazione e la necessità di far agire, al meglio, quelli già esistenti, e soprattutto la necessità di avere punti di riferimento certi e condivisi nelle analisi e nelle risposte. Se la cartografia del futuro che la Regione immagina, o che i territori, singolarmente, tratteggiano, non corrisponde con le analisi e gli scenari che provengono dal mondo dell’impresa, o delle parti sociali, ben difficilmente si potrà giungere a una sintesi efficace. Ecco dunque i punti da cui credo debba partire un’azione corale ed energica: 1) se di analisi abbiamo bisogno, allora che sia previsionale, rigorosa, e soprattutto condivisa da tutti gli attori in gioco, per non rischiare di ritrovarci con un unico malato e una moltiplicazione di ricette e di programmi; 2) no alla moltiplicazione di tavoli ma sì all’individuazione precisa di una interlocuzione mirata, capace di definire le strategie a medio termine e di attuare le azioni necessarie. Se tavolo deve essere che sia unico, senza rivoli o camere di compensazione. Non si tratta di conquistare un posto al sole, ma di arginare una situazione che rischia di travolgerci; 3) no alla proliferazione e alla duplicazione di strumenti, che piuttosto andrebbero snelliti e, soprattutto, resi coerenti nei modi e nei tempi con gli obiettivi che si intendono raggiungere e le azioni che si intendono attivare; 4) capacità di riconoscere quali interventi, anche nelle esperienze passate, hanno prodotto effetti positivi e maturato effetti reali sul territorio, perché divengano modelli di intervento e soprattutto esperienze che si sceglie di far maturare e di sostenere. Non è una questione nominalistica, ma concreta. Se qualcosa ha funzionato, e più di un programma ha funzionato, allora che si sia capaci di riconoscerlo e di metterlo a valore, piuttosto che di disconoscere le esperienze, vanificando il lavoro fatto, il sapere maturato, le risorse investite”. 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