Petruzzelli: Attila, invasore e gentiluomo

di Fernando Greco

(foto di Clarissa Lapolla)

Fernando Greco

Dopo l’allestimento scaligero della “Salomé” di Strauss presentato alla platea barese nel mese scorso, il Petruzzelli ha proposto un altro spettacolo noto al grande pubblico: si tratta della messa in scena dell’opera “Attila” di Giuseppe Verdi curata dal regista Daniele Abbado e coprodotta nel 2016 dai teatri Comunale di Bologna, Massimo di Palermo e La Fenice di Venezia, già apprezzata dai melomani grazie alla trasmissione RAI della prima bolognese e al video-streaming della ripresa palermitana.

Il rovesciamento dei valori

L’ “Attila” verdiano, ispirato al romanzo “Attila re degli Unni” (1809) di Zacharias Werner, vide la luce al teatro La Fenice di Venezia il 17 marzo 1846, nono titolo nel catalogo del compositore. La matrice ancora risorgimentale dell’argomento storico, che a partire da “Nabucco” vede contrapposta la barbara irruenza dell’invasore all’intento di ribellione da parte del popolo oppresso, lascia tuttavia intravedere una transizione, un’evoluzione che è soprattutto musicale e si evidenzia nei momenti più intimisti della partitura. All’ipnotica bellezza del preludio (forma preferita alla tradizionale sinfonia) si accostano pagine di cesello cameristico e di valenza quasi impressionista, come quella che descrive il sorgere del sole con il coro degli eremiti alla fine del prologo o il sublime accompagnamento dell’aria “Oh! Nel fuggente nuvolo”, che echeggia il “murmure del rivo” con sonorità che sembrano anticipare i “vortici” del Nilo nella molto più tarda “Aida”. E’ un Verdi che scalpita verso il nuovo, pur restando ancorato allo schema belcantista che destina a ogni personaggio un momento di bravura chiuso in sé stesso e composto da recitativo, aria e cabaletta.

A ciò si aggiunga il crescente interesse per l’approfondimento psicologico dei personaggi, che nel caso specifico di “Attila” rovescia la morale comune trovando nel protagonista, nell’invasore, l’unico portatore di valori positivi, come sottolineato dal regista Daniele Abbado: “Ezio è un generale romano che prima si presenta come un corrotto e poi sarebbe pronto ad ammutinarsi… Foresto è un innamorato afflitto da fragilità… Odabella possiede una psicologia dai tratti inquietanti: instabilità emotiva e senso di colpa… Attila, il nemico, lo straniero, solo lui è portatore di valori, presentandosi in tutta l’opera come l’uomo più incline a sentimenti equilibrati di giustizia e di generosità. Per una società tanto malsana le nozze tra Attila e Odabella potrebbero essere un motivo di rigenerazione. Eppure niente da fare: l’opportunità preziosa di creare una nuova società si scontra con la morte di Attila. Se la si considera un’opera politica, l’Attila di Verdi è di certo carica di pessimismo”.

L’interno della nave

Il versante scenico, a cura di Gianni Carluccio, si caratterizza per una claustrofobica oscurità, come se tutta la vicenda si svolga al chiuso, compreso il sorgere del sole sulle lagune adriatiche. In accordo con le intenzioni del regista, il pavimento rialzato ai lati evoca l’interno di una grande nave, arricchito dalla frequente presenza di vele e travi lignee sullo sfondo, palesi riferimenti alle imbarcazioni di coloro che, scampati al sacco di Aquileia, nel prologo approdano in laguna desiderosi di sconfiggere l’invasore e fondare una grande città italica (quella che, secondo l’aneddotica, sarebbe divenuta la città di Venezia). Sull’incontro tra Attila e papa Leone incombe un arco romanico con un’enorme campana a simboleggiare la supremazia del cristianesimo sulla barbarie. All’aprirsi del sipario, nell’accampamento di Attila abbondano i prigionieri, sia in carne e ossa sia in forma di corpi decapitati, mentre il popolo irrompe dal fondo come nel “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, complice l’atemporalità dei costumi disegnati dallo stesso Carluccio con Daniela Cernigliaro, che ai guerrieri romani riserva divise di taglio moderno. “Gli spettatori sono calati in un mondo contemporaneo – secondo le parole di Abbado – dove l’esercito che segue Attila è composto da popolazioni dell’Est, gente che può arrivare dalla Siria o dall’Afghanistan. I Romani sono piuttosto dei militari internazionali di oggi, potrebbero raffigurare le truppe dell’ONU. Ci troviamo con ogni evidenza nel secondo Novecento o nei primi anni Duemila, senza però fare riferimenti alla realtà storica nella sua cronaca”.

Il versante musicale

L’Orchestra del Petruzzelli, che il 14 aprile scorso ha festeggiato Stefano Montanari quale nuovo Direttore Stabile, è stata diretta per l’occasione dall’esperto Renato Palumbo, risultando sempre fascinosa e fedele al dettato verdiano tanto nei momenti di impetuoso vigore quanto in quelli di più raccolta introspezione. Molto emozionante il crescendo degli archi durante il sorgere del sole nella seconda parte del prologo. Insomma un tessuto vivo e palpitante su cui si incastonava con perfetto equilibrio la bellezza delle voci dei protagonisti, seppur inficiato dall’anacronistico taglio dei da-capo di tutte le cabalette, fatto ingiustificabile per un teatro di portata internazionale e che purtroppo era accaduto anche nella ripresa palermitana per la bacchetta di Daniel Oren, mentre nel debutto bolognese e nella ripresa veneziana gli impeccabili Michele Mariotti e Riccardo Frizza avevano optato per l’esecuzione integrale. Il Coro del Petruzzelli diretto da Fabrizio Cassi ha offerto una prestazione magistrale: soggioganti le sonorità della preghiera fuori scena alla fine del primo atto.

Il personaggio di Attila creato in maniera credibile dal basso russo Alexander Vinogradov ha trasmesso un’intensa umanità. Il suo timbro vocale, scaldatosi via via nel corso dello spettacolo, si è mostrato particolarmente a proprio agio nella zona acuta risultando molto efficace nella scena del sogno del primo atto e nel finale.

Dopo la toccante Aida dell’anno scorso, il soprano Leah Crocetto ha regalato il suo fiume di voce al personaggio di Odabella, rendendo l’androgino vigore della donna guerriera, ma anche, all’occorrenza, l’estatica enfasi della fanciulla innamorata: formidabile il legato esibito nell’aria “Oh! Nel fuggente nuvolo”.

Fabio Sartori nel ruolo di Foresto è una garanzia di successo: presente nel cast della prima bolognese e della ripresa palermitana, anche a Bari il tenore ha sfoderato una voce di singolare bellezza a vantaggio di un’interpretazione giocata su un fraseggio scultoreo interpolato ora da acuti granitici ora da affascinanti pianissimi. E’ bello ricordare che, agli albori di una luminosa carriera, Sartori vinse a Lecce nel 1996 il Concorso Internazione “Tito Schipa” per giovani cantanti lirici.

Presenza di lusso, a Bari come già a Bologna e a Palermo, quella di Simone Piazzola nei panni di Ezio. A una decina d’anni dal memorabile Simon Boccanegra con cui, appena ventinovenne, il baritono dette prova di sorprendente maturità sul palcoscenico della Fenice di Venezia, la sua costante intelligenza interpretativa gli ha consentito di creare un Ezio a tutto tondo, la cui generosità e varietà d’accenti sapeva trasmettere al contempo la nobile autorevolezza del generale romano e la sua indole subdola e corrotta.

Puntuali gli interventi del tenore Andrea Schifaudo e del basso Dongho Kim nei rispettivi ruoli di Uldino e Leone.

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