Merda, merda, merda!

E’ vero: in un modo o nell’altro tutto sembra lentamente riprendere il suo corso, le scuole riaprono, i teatri presentano le nuove stagioni, le compagnie riprendono i loro spettacoli e si avventurano timidamente in tournée, ci si iscrive in palestra, si organizzano i turni di lavoro, le famiglie tornano alla propria routine… salvo poi avvicinarsi ad osservare le cose da vicino.

E allora scopri che la ripresa è faticosa, incerta e molto, molto difficile, e che non coinvolge tutti.

A scuola: ogni classe ha un entrata diversa, si resta tutti in aula, anche per il pranzo, non ci si può scambiare oggetti, non ci si può toccare, ognuno ha la sua mascherina, ci si misura la febbre, le mani sempre igienizzate…e può capitare che, nello stesso nucleo famigliare, ci sia contemporaneamente chi inizia con la didattica a distanza, chi va a scuola al pomeriggio e chi invece la frequenta al mattino.

A teatro: si, molti teatri hanno sfidato le difficoltà tornando a proporre le proprie stagioni. Ma, guardando meglio, ti accorgi che i loro cartelloni presentano anche degli strani buchi in mezzo.

Parlando con colleghi e maestranze scopri che, si, hanno riaperto ma, in un mondo fatto di contratti precari, sono tornati al lavoro solo quelli assunti in pianta stabile. Solo che poi, tra questi, c’è chi deve ritenersi fortunato nonostante lavori a singhiozzi (alcuni enti lirici, per riuscire a far lavorare tutti, hanno optato per il lavoro a settimane alterne), chi ha addirittura ricevuto la promessa di lavorare un solo mese tra ottobre e dicembre e poi chi, come i ballerini del Teatro San Carlo di Napoli, denuncia che gli accordi sindacali che avrebbero dovuto garantire loro dei mesi di lavoro non sono mai stati rispettati (sai che fortuna!).

Mentre i freelance, che sono la maggioranza, sono a casa da Febbraio. Punto.

Quando finirà questo vuoto incolmabile? E nel frattempo?

Qui a casa Toma è arrivato un amico, un fratello di vecchia data, conosciuto sul palco del CRT Teatro dell’Arte di Milano (ora Teatro della Triennale) esattamente 20 anni fa.

Francesco lavora in teatro da sempre, è un esperto macchinista, ha lavorato in tutti i teatri di Milano e girato per parecchi Teatri dello stivale. Oggi è qui, perché in ‘vacanza forzata’ da Febbraio. Ha vissuto il lockdown a Milano, epicentro dell’epidemia. Dopo lo shock iniziale e la conseguente preoccupazione per la situazione globale, ha addirittura scoperto il piacere di non lavorare (che forse non gli era mai capitato). Ora però sono passati tanti mesi, Francesco ai miei occhi al momento è in fuga: continua a posticipare la sua partenza, rimanda il suo ritorno a Milano perché non vuole affrontare il vuoto che lo aspetta.

 

Che poi vuoto non sarà mai, perché lui è un uomo pieno di risorse e sempre attivo e, per fortuna, prima di scegliere il teatro ha imparato il mestiere di famiglia, per cui potrà sicuramente arrabattassi come fabbro, dedicandosi a riparare e montare serrature.

E non è certo l’unico! C’è il macchinista che dopo 30 anni in teatro è andato a raccogliere le olive, l’elettricista che per mantenere la famiglia oggi esegue lavori di riparazioni nelle case, la sarta di scena che è rimasta a casa e ora fa gli orli ai pantaloni dei vicini, l’attrezzista che si è fatto assumere da una cooperativa che ripara le buche in autostrada, la macchinista diventata imbianchina… tutti professionisti della scena che, dopo una vita in teatro, ora sono costretti a fare altro.

Il mio amico Francesco sorride sempre, non si dà per vinto. Ma l’altro giorno è successo che l’ho portato con me alle prove per la ripresa di uno spettacolo, ero felice di rimettere piede in teatro, felice di rivedere tutto il cast e felice di sapere che riprendevano il lavoro (anche se terrorizzati dal vedersi annullare la data il giorno prima della partenza, come è già successo 3 volte in questi strani mesi), parlavo e ridevo con tutti. Non mi ero accorta che lui era rimasto a bordo palco, fermo, con lo sguardo rivolto in su. Graticcia, quinte, corde, palco… osservava la scena in silenzio. Quando mi sono avvicinata aveva gli occhi visibilmente commossi e mi ha detto: ‘amica mia, quanto mi manca il teatro’.

Appunto. Perché, oltre a mancarci il lavoro, ci manca il teatro.

Perché, è vero che chi lavora a teatro è fortunato perché può vivere facendo ciò che più ama, ma proprio per questo, perdere il lavoro è molto più di perdere una fonte di guadagno.

Chi sceglie di lavorare in teatro sceglie una vita precaria, una vita di lavoro duro, in cambio di un sogno: respirare la magia di un mondo diverso.

Come tutte le passioni è come una malattia dalla quale non si riesce a guarire. Una volta che vivi di quella finzione (che di finto non ha nulla), non puoi più farne a meno. Crea dipendenza. E questo vale per tutti, non solo per chi lavora sotto i riflettori, anche per le maestranze. Tantissime e preziose.

Voglio essere ottimista: tutto riparte, e questo è già un bene.

Tutto riparte e saremo in grado di gestire le nuove regole, trovare il modo di far funzionare le cose e non lasciare indietro nessuno. Se bene a stenti e con molte difficoltà, alla fine troveremo un equilibrio.

Certo, ci voglio credere, perché credo nella forza del pensiero, ma voglio anche restare consapevole e vigile.

Al presente, per tantissimi, il lockdown non è ancora finito. A pagare il prezzo più alto sono sempre quelli che fanno funzionare le cose in silenzio, quelli dietro le quinte, non solo a teatro.

E io, a costo di continuare a ripetermi, voglio ricordarlo ogni volta che posso.

Intanto, mentre il Metropolitan di New York cancella tutti gli spettacoli e a Vienna viene annullato il ballo dell’opera, a tutti coloro col fiato sospeso auguro di tornare a respirare a pieni polmoni (in tutti i sensi).

Come si dice a teatro:

‘MERDA, MERDA, MERDA!’

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