Please, I can’t breathe

di Thomas Pistoia

Con questo ginocchio premuto sul collo, non riesco a respirare. E anche se grido, anche se supplico, il ginocchio resta lì a schiacciarmi il fiato, mentre il cuore mi rimbalza sull’asfalto. Eppure sono un afroamericano che vive e sbaglia nella nazione più potente del mondo. Ho anch’io le mani sporche di Vietnam, Afghanistan e Iraq e ho ancora negli occhi la nuvola di Ground zero. Nella patria dei supereroi e della Statua della Libertà, mi blocca al suolo la polizia di Trump.
Io sono l’America e non riesco a respirare.

Non riesco a respirare neanche quando questa pelle, più o meno dello stesso colore, attraversa tratti di mare e di disperazione e l’acqua mi entra in bocca e nel naso, mentre vado a fondo e tutto il mondo diventa blu. Ho fatto una lunga apnea nel mio paese in guerra, o sulla mia terra senza libertà. E non ho ossigeno neanche se riesco a toccare riva, perché non mi danno altro che disprezzo e non conto niente. Devo vendere droga e me stesso, oppure devo stare chino, ore e ore, sotto al sole, con le mani nella terra a scavare, strappare e raccogliere pomodori. Con questo ginocchio dei caporali premuto sul collo mi manca l’aria e posso solo ripetere “che sia fatta la volontà di dio”. Eppure sono un migrante che vive e sbaglia tra coloro che, migranti, lo sono stati prima di me.
Io sono un po’Africa e un po’ Europa e non riesco a respirare.

Non riesco a respirare neanche se indosso la pelle bianca, neanche quando il mio cognome termina con una vocale. Come nello spazio profondo, nessuno può sentirmi urlare. E perdo coraggio, perdo il significato delle cose e mi arrendo, quando vedo il malvagio diventare più importante di chi è onesto veramente; di chi, pur di difendere un’idea, è disposto a saltare per aria su un’autostrada, oppure davanti al citofono della casa di sua madre.

Non respiro se lo stato, il mio stato, scende a patti con i boss. Arranco, a bocca aperta, in una crisi respiratoria, quando il giudice che lotta contro la criminalità organizzata viene ostacolato nel suo lavoro e il mafioso, invece, va dall’ergastolo ai domiciliari; quando il giornalista che racconta verità scomode viene zittito con la querela o la pistola; quando la storia che passa tra Erdogan, Hong-Kong e la scuola Diaz è tinta di un solo buio colore.

Il mio paese soffoca, distrutto dalla corruzione che fa crollare i ponti e allagare le metropoli. Dalla corruzione che ricicla denaro sporco e specula sulla salute, i malati, gli ospedali; e dà lavoro ai raccomandati e ai servi di partito; e smantella la scuola, l’istruzione, la ricerca.
Con questo ginocchio dei mafiosi premuto sul collo, ansimo e non riesco ad alzarmi. Eppure vivo e sbaglio nella nazione che ha dato di più al mondo per scienza, arte e umanità.
Sono l’Italia e non riesco a respirare.

Ma la verità è che il ginocchio preme ovunque. Non c’è posto al mondo in cui non ci sia uno stronzo che si crede superiore, un prepotente, un arrogante, un guappo, un bullo. Un Derek Chauvin con le mani in tasca, spesso a capo di una nazione, che ci mette giù, ci comprime il petto, il collo e ci soffoca piano, tutti insieme, tutti quanti, noi che viviamo e sbagliamo sulla terza palla di amore e letame in ordine di distanza dal Sole.
Siamo il mondo e non riusciamo a respirare.

“Please, I can’t breathe” è la supplica che da persone di buona volontà facciamo tutti, ogni giorno, senza sosta.
Ma quegli altri ci ignorano e, col ginocchio, premono di più.
Poi dicono di non essere loro, col ginocchio, a toglierci il fiato.
Ma certo, non è mica asfissia.
E’ ipertensione arteriosa.

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