Casa, diario dalla quarantena

casa di Chiara Idrusa Scrimieri

di Chiara Idrusa Scrimieri

 

E la casa dov’è rimasta? Il giorno dopo la tomografia papà tirò fuori questa cosa della casa. Non la capii bene sul momento, se fosse una fantasia dei positroni. Non c’era poi modo di discuterne, bardata com’ero in una tuta protettiva per le radiazioni. Ma non volevo fargli capire che non capivo. Intanto che cercavo appigli ogni giorno di quei tre giorni gli ho portato un sacchetto con poche cose appese a una domanda. Questo la vuoi? Quest’altro, ti serve? Le sue cose erano lontano dagli occhi e lui ne sentiva il disagio, solo in una stanza sconosciuta. Gli ho portato un libro di un poeta, fiabe sugli animali di paese e si è tranquillizzato. Poi, quando siamo usciti dall’isolamento ha detto: rimettiamo la casa al posto suo eh. La casa?

In ospedale ci siamo fatti tante case. A nefrologia, poi a infettivi, poi di nuovo a nefrologia. La più comoda è stata l’ultima, quella vicino alla finestra, col davanzale sopra al termosifone. Ci stavano tante cose. Il tempo che ci vuole, ad arredare la casa portatile! A tenerla in ordine: caramelle, biscottini, libri, medicine, disinfettante, radiolina, libri più impegnativi, il giornale, scorte di carta, due riviste, le parole crociate, la frutta, qualche fiore. Non è come l’armadietto, la casa intorno al letto. Non è una scatola per il necessario: pigiama, pantofole, maglia di sotto, maglia di sopra, giacca da camera, tutto al doppio, cappellini, calzini leggeri e calzini pesanti. È di più: la casa.

I doni recenti vanno dietro, che si consumano prima le cose più vecchie. E quindi sei sempre lì a sistemare, perché non è mica vicina come il comodino. Sul comodino ci stanno poche cose che servono subito e basta. La casa è quella che non ha nessuno, ma tutti, in ospedale, dovrebbero francamente avere. Abbiamo imparato ad arredare piccole case portatili poco alla volta e siamo diventati specialisti. Per un periodo la casa più bella e fiorita ha fatto sorridere anche i malati degli altri letti, che forse ce l’avrebbero voluta avere anche loro una. Abbiamo sempre offerto cose a tutti, a chi poteva oppure di nascosto.

Ho seguitato ad arredare minuscole case intorno. In convalescenza la mia casa principale è stata un tavolo all’aperto: libri, carta e penna, ma anche un vaso, un fiore reciso, un ramo fermacarte portato dal mare, un mucchietto di bellezza senza tempo, da chiamare casa quando stai scomodo negli occhi e nel cuore. Non ho perso l’abitudine di pensare alla dolcezza di quella sopravvivenza. Casina nel bosco è un’arca della bellezza nata per la sopravvivenza all’imponderabile e alla paura dell’insufficienza.

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