Scu. ‘Solo nel Salento, ma non per questo poco pericolosa’

 

Lecce. L’organizzazione, i metodi, la percezione dei cittadini. Dalla relazione annuale della Dna emergono i nuovi lineamenti della mafia salentina. Con una conferma: sono i politici a cercare i mafiosi

LECCE – “La mancanza di procedimenti penali riguardanti la Sacra Corona Unita o alcuni suoi affiliati al di fuori del distretto della Corte d’Appello di Lecce rafforzano la convinzione che la stessa Scu sia un’organizzazione mafiosa estremamente localizzata, sicuramente in contatto tramite suoi affiliati e per la realizzazione di proficui affari delittuosi, con altre organizzazioni o gruppi criminosi anche stranieri, ma senza una tendenza espansionistica al di fuori del territorio di appartenenza”. E’ con queste parole che la Direzione Nazionale Antimafia nella sua Relazione annuale, conferma come la Sacra Corona Unita non sia la mafia pugliese ma la “mafia salentina”, sottolineando anche che la “territorialità della Scu non significa automaticamente minore pericolosità dell’organizzazione vista la dinamicità mentale e il senso degli affari più volte dimostrata dallo stesso sodalizio”. Fin dalla sua nascita la Sacra Corona Unita ha abilmente saputo sfruttare la vicinanza geografica con i territori dell’est europeo sviluppando proficui rapporti d’affari e di scambio economico – criminale con le organizzazioni criminose operanti su tali territori. Inoltre, l’attività “sommersa” continua ad essere il metodo più utilizzato. “Si evitano clamorosi eventi criminosi – si legge nella Relazione – per potersi dedicare con maggiore tranquillità alla gestione degli affari illeciti e al reinvestimento dei proventi da essi derivanti”. Un “sistema” che permetterebbe alla SCU di poter raggiungere facilmente il suo primario obiettivo: il consenso tra la popolazione. A conferma della “bontà” di tale strategia, l’estrema risibilità dei dati ufficiali riguardanti il numero dei procedimenti per estorsione ed usura di matrice mafiosa per le province di Taranto, Brindisi e Lecce. Dal 1 luglio 2012 al 30 giugno 2013 – orizzonte temporale della relazione della Dna – sono stati iscritti nel registro delle notizie di reato 182 procedimenti per estorsione, di cui solo dieci riconducibili alla criminalità organizzata di tipo mafioso (meno di uno al mese), nonché 40 episodi di usura di cui solo sei commessi con metodo mafioso. “Dati – si conferma nel report- che dimostrano come la strategia di ricerca del consenso sociale da parte dei gruppi di matrice mafiosa abbia iniziato a dare i suoi frutti, producendo una sorta di assuefatto disinteresse della gente alle manifestazioni criminali, un abbassamento della soglia di tolleranza delle stesse e la sostanziale accettazione di comportamenti delittuosi da parte dei cittadini, ormai capaci, da un lato, di considerare il pizzo come il ‘prezzo della tranquillità’ e, dall’altro, costretti ad utilizzare lo strumento del prestito usurario per poter ovviare alla totale chiusura di credito delle banche”. Usura ed estorsioni continuano ad essere “attività fondamentali” per la sopravvivenza dei gruppi criminosi sul territorio e per garantire il mantenimento degli affiliati che si trovano in carcere e delle loro famiglie. Ed è proprio il carcere il luogo dove ancora vengono prese le decisioni più importanti e adottate le strategie. Su questo aspetto la Relazione della Dna non lascia particolari dubbi. “Nonostante la maggior parte degli esponenti storici della Sacra Corona Unita sia sottoposto al regime di 41 bis i consociati si rivolgono comunque ad essi, tramite una serie di sotterfugi, per avere indicazioni in merito a nuove iniziative delittuose o su come comportarsi nelle situazione di contrasto che si verificano nel proprio gruppo”. In pratica gli assetti e gli equilibri dei rispettivi gruppi e le loro attività illecite si determinano in carcere. Analizzando le dinamiche dei gruppi che si riconoscono negli originali principi ispiratori della Scu si evidenzia però anche un altro aspetto: la volontà degli affiliati e dei loro capi di nascondere il più possibile le strutture organizzative e i ruoli dei singoli componenti. Per questo motivo – si sottolinea nel report – è stata introdotta “la regola dell’affiliazione solo tra paesani al fine di rendere maggiormente impermeabili i rapporti tra i gruppi aventi influenza su territori diversi. Inoltre, si precisa che “essendo in atto il reinvestimento dei capitali illeciti derivanti dal traffico di stupefacenti, gioco d’azzardo ed usura e dovendosi avvalere a tale scopo di persone formalmente esterne all’associazione, si è deciso di evitare i rituali di affiliazione di coloro che hanno disponibilità economiche per evitare che questo aspetto formale possa danneggiarli e per tenere riservata la loro partecipazione al clan”. Sostanzialmente è considerato “assolutamente conveniente” non sottoporre al rituale di affiliazione coloro che hanno il compito di gestire gli affari per conto delle organizzazioni. Interessi che si concentrano soprattutto sul settore dei giochi on line, “new slot” e “Video Lottery Terminal”, del traffico di stupefacenti e, come detto precedentemente, dell’estorsione e dell’usura e che hanno prodotto negli ultimi dodici mesi, rispetto al passato, alcune tensioni tra i clan, soprattutto tra quelli che controllano la città di Lecce. Su tutti quello capeggiato dal capo della criminalità organizzata leccese Salvatore Rizzo che dal carcere del Nord Italia in cui è rinchiuso continua a dare ordini e dettare la strategia espandendo la sua influenza a Calimera, Melendugno, Merine, Lizzanello, Vernole e Cavallino e arrivando addirittura ad instaurare un esteso “rapporto di cooperazione” con lo storico clan brindisino di Salvatore Buccarella. Ad esso si contrappone per il controllo del capoluogo e dell’immediato hinterland leccese il clan Briganti/Nisi che può contare sull’appoggio dei gruppi capeggiati dagli ergastolani Cristian Pepe e Salvatore Caramuscio. Dal 1 luglio 2012 al 30 giugno 2013 sono stati un centinaio gli episodi di violenza ed intimidazione riconducibili alla criminalità organizzata verificatisi nella Provincia di Lecce ai quali vanno aggiunti ben 107 episodi nei quali si è dato fuoco ad altrettanti veicoli. Significativo è anche l’accenno che viene fatto nel report all’evoluzione dei rapporti tra i gruppi mafiosi salentini e gli ambienti della politica locale ed istituzionale. “Non sono i mafiosi che cercano un contatto con i politici, offrendo i loro voti in cambio di qualcosa – si afferma nella relazione – ma sono i politici che cercano il supporto elettorale dei gruppi criminali presenti sul territorio, promettendo l’affidamento di lavori alle aziende ad essi facenti riferimento o altri possibili affari derivanti dalla gestione amministrativa degli enti di cui se eletti saranno rappresentanti”. E quando le promesse non vengono mantenute le conseguenze sono facilmente immaginabili. Articoli correlati: Antimafia: ‘Nel Salento i politici cercano i mafiosi’ Lecce in mano ai clan Salento: crisi e criminalità

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