La profonda suggestione dei colori nel Salento e oltre

La 'divinità' del Colore: dalla spiritualità salentina ai sumeri, dall'acchiatura ai masai. Come l’anziana tessitrice Carmela ha ispirato la nostra Tania Pagliara

Di Tania Pagliara La prima volta che sentii il termine arcupintu ero una bambina, ignara che il mio primo approccio con questo nome iniziava svelandone il mistero. Il mio quartiere è una delle zone più antiche di Campi Salentina, situato intorno ad una piazzetta denominata lago di kola dove fino all’epoca messapica vi era appunto un laghetto. Lo stesso quartiere dell’indemoniata Maria. Intorno ai primi anni ’70 ero diventata molto amica di un’anziana tessitrice, che aveva all’epoca circa 100 anni, ma ai miei occhi sembrava una bambina per com’era gioiosa e giocherellona. Il suo nome era Carmela, era magra ed alta, energica ed agile, la più grande tra i fratelli, apprese l’arte della tessitura e rimase signorina per scelta, seguendo la tradizione della sua famiglia. Non ricordo quale fu il motivo che mi spinse un giorno ad entrare nella sua casacasa per chiederle come si tesseva a colori. La mia richiesta le scatenò entusiasmo ed euforia. Mi fece rimanere vicino al suo telaio a mano, situato nella stanza d’ingresso, raccomandandomi di non seguirla, perché nell’altra stanza non potevano entrare le vergini, tranne lei, perché era la signora della casa. Appena uscì dalla stanza, sbirciai dagli spiragli della porta e vidi che prendeva da sotto il materasso un cerchio di legno. Ritornai vicino il telaio ad aspettarla, si sedette sullo sgabellino di legno e mi mostrò l’oggetto misteriosamente nascosto. Mi chiese ridendo cosa fosse, dopo alcune risposte errate mi disse ad alta voce: -E’ l’arcu te lu pintu o arcupintu, il serpente che si morde la coda che fa tessere lu pintu, il tessuto variopinto. Questo è il vero tesoro nascosto, la fortuna. Ebbi paura, io il serpente che si morde la coda lo avevo visto solo al cimitero. Mi rianimai quando iniziammo a lavorare lu pintu: appese l’arcupintu al supporto verticale del telaio e infilò dentro una cascata di fili colorati, il tutto sembrava un serpente arcobaleno, quando dovevamo tessere in rosso, tiravamo il filo rosso e così via. Il serpente arcobaleno si muoveva sotto le nostre mani, la matassa variopinta si girava vertiginosamente per poi ritornare come prima. Provai un’emozione imparagonabile. La casa dove viveva Carmela incorporava con la chiesetta di san Francesco, ritenuto il signore degli animali, datata XVI sec dc, ma alcuni storici avevano avanzato l’ipotesi che la chiesa fosse nata su un luogo di culto precedente all’epoca cristiana, per l’anomalia della struttura e per i gradini logori eseguiti con blocchi enormi di pietra, che purtroppo vennero cementati e piastrellati. telaioIl telaio di Carmela è oggi conservato nel museo delle tradizioni popolari di Cerrate. Crescendo mi resi conto che Carmela mi aveva tramandato una spiritualità antica quanto l’uomo. Il divino era il colore, l’arcobaleno, l’arcupintu ed il ‘pintu’. Basta pensare che l’unica divinità ragno sumera, citata nel paradiso sumeriterrestre dei sumeri, era Uttu, che non era il ragno tessitore, ma il ragno tessuto, infatti uttu vuol dire proprio ‘ragno tessuto’, cioè creato, inteso quindi come una via di mezzo tra il ragno ed il serpente, proprio come il drago mitologico dell’Italia settentrionale tarànto, un tutt’uno tra il tessitore o tessitrice, il telaio ed il tessuto, creato e creatore. Il termine arcupintu ha diversi significati, riconducibili ad un unico concetto sacro, rispecchia la spiritualità salentina, il molteplice riconducibile all’unità: -Vuol dire arcobaleno, come a Sassari e nell’Irpinia. L’arcobaleno in molte culture è tessuto dalla dea madre o l’elemento che unisce il divino maschile al divino femminile. -Vuol dire arco dipinto, rappresentando la pittura e l’architettura, quindi l’arte della quale la dea madre tessitrice era maestra e protettrice. -Era l’insieme di nastri colorati appesi al centro della stanza nel rito musicale-cromo-coreutico delle tarantate. La tarantata sceglieva il colore e tirava il nastro, simboleggiando l’arcupintu del telaio, il ragno possessore era dio colore e tirando il nastro del suo colore tesseva la ragnatela virtuale per uscire fuori del corpo della donna. Il dio colore lo troviamo tra i Masai un’etnia nomade dell’Africa, dove il dio Ngai è colore ed umore. Il ragno tessitore e creatore sembra non essere tramandato se non nei racconti delle donne masai, che ricordano una società matriarcale d’origine dove la donna era tessitrice della dimora, una sacralità al femminile simile all’arcaica Vesta, tessitrice, portatrice del fuoco, ragno e pitonessa. Inoltre un'altra etnia africana, quella dei bantù, ritenuta di origine niloide come i masai, crede nel dio Malungu che abbandonò la terra risalendo sul cielo tramite una ragnatela. Sia dio ngai che dio malungu sono responsabili della pioggia e del tuono. -L’arcupintu è anche qualcosa di magico ed indefinito legato ai folletti ed all’acchiatura. A questo concetto è associata la pietra rotante messa a proteggere il tesoro, che ricorda la pietra che fa tuonare del dio asiatico del fulmine taruntis ed il dio celtico taranis, entrambi con la stessa radice di taranta. Inoltre ai folletti e l’acchiatura anticamente venivano associati i menhir forati, i menanthol, da dove passavano queste entità magiche, secondo la nostra tradizione popolare. Questi sembrano simboleggiare l’arcupintu di pietra del telaio di madre terra. In questo caso arcupintu è la pietra creatrice del suono e del colore creatore e creato. -L’Arcupintu , come ci ha tramandato Carmela, è il serpente che si morde la coda, la conciliazione degli opposti, il carma, morte e rinascita. Un concetto antichissimo che troviamo dipinto nelle mani del dio An Sumero. Tutti questi significati dell’arcupintu sono stati tramandati in un rito pietra forata calimeratribale giunto fino ad i nostri giorni ed ancora praticato: il rito di prosperità della pietra forata nella chiesa di san Vito a Calimera. Questo menanthol sorgeva nel bosco sacro del paese, venne inglobato dalla chiesa rupestre di san Vito ed il rito assorbito dalla religione cristiana. Ancora oggi, ogni anno, il giorno del lunedì dell’angelo, la gente si reca nella chiesetta per passare attraverso il foro del monolite per augurarsi prosperità e ricostruirsi lo spirito. Il foro è molto stretto, riescono a passare solo bambini e persone molto magre. Il menathol non ha solo il significato dell’utero di madre terra, ma anche l’arcupintu del telaio del dio-dea tessitore e creatore del corpo e dello spirito. Con il tempo questi megaliti assunsero anche significati astrali, ricordiamo che per quasi tutte le culture, il dio originario, quando si separò da madre terra, venne identificato con il sole, i suoi raggi e l’arcobaleno. Il rito viene eseguito il giorno dopo pasqua tramandando l’aspetto più profondo dell’arcupintu, il ciclo vitale di morte e rinascita, il ciclo delle stagioni, e gli altri numerosi significati contenuti nel simbolo archetipo del serpente che si morde la coda: l’uroboro.

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