‘I’ come italiani… ed indebitati

Il record, poco invidiabile, dell’Italia: conti in rosso per molti zeri

Tra le democrazie europee (ma non solo), l’Italia detiene un record poco invidiabile: un debito pubblico impressionante. In economia per debito pubblico si intende il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti, individui, imprese, banche o stati esteri, che hanno sottoscritto un credito allo Stato nell'acquisizione di obbligazioni o titoli di Stato (quali BOT, BTP, CCT in Italia e Obbligazioni di cassa in Svizzera) destinate a coprire il disavanzo del fabbisogno finanziario statale ovvero coprire l'eventuale deficit pubblico nel bilancio dello Stato. Quando il debito è contratto con soggetti economici di Stati esteri si parla di debito estero; viceversa, quando è contratto con soggetti economici interni allo stesso Stato, si parla di debito interno. Normalmente entrambe le componenti sono presenti in misura variabile all'interno del debito pubblico di uno Stato. La presenza di un debito nei conti pubblici statali impone la necessità da parte dello Stato – oltre alla sua copertura finanziaria nei tempi e modalità di scadenza prestabilite dai titoli stessi compresi gli interessi – di tenerlo sotto controllo per non cadere nel rischio insolvenza, ovvero fallimento, stampando cartamoneta o ricorrendo a politiche di risanamento dei conti pubblici, come ad esempio politiche di rigore. Una recente analisi condotta evidenziando dal 1995 ad oggi lo storico del debito pubblico italiano, ha permesso di definire a causa di quali politiche economiche, manovre e “manovrine” poco azzeccate, sia stato possibile arrivare alla soglia di quasi 2.000 miliardi di euro di debito pubblico. L’analisi ha dimostrato come il debito pubblico italiano abbia iniziato la sua drammatica ascesa da circa quarant’anni a questa parte (di circa 20 punti sul PIL soprattutto nel decennio della famigerata inflazione a due cifre). Ma il dato più sconcertante che emerge da questa analisi, è il dato rappresentato dagli interessi reali che da 30 anni l’Italia continua a pagare. Infatti di quei quasi 2.000 miliardi di euro, circa 1.700 miliardi rappresentano solo gli interessi (conteggiati dal 1995 al 2010). Molti economisti, studiando il caso italiano, concordano nell’affermare che se l’Italia avesse emesso moneta per finanziare i propri deficit pubblici, il debito pubblico sarebbe probabilmente solo il 20% di quello attuale. I più sarcastici poi paventano soluzioni estreme come la seguente: anziché stampare euro e molti titoli di stato per finanziarsi, lo Stato italiano potrebbe stampare solo euro. In questo modo risparmierebbe di pagare interessi, di indebitarsi e di pagare interessi su interessi. La risposta a questa provocazione si evince da sé: in tal modo si crea inflazione. Ma al primo anno di Economia alla “matricola” si insegna che l'inflazione è determinata da un eccesso di domanda rispetto all'offerta, un eccesso di moneta o di spesa. Ovvero: se lo Stato spende 2000 miliardi e ne incassa 1.500, ha un deficit, che colma stampando titoli di Stato o carta moneta. Il risultato, se si guarda alla spesa, è lo stesso, in quanto alla fine si sono spesi sempre 2000 miliardi. Il punto è che stampando carta moneta non si indebita e stampando titoli di Stato paga interessi, si indebita, paga e poi continua a pagare interessi su interessi. Per concludere, se lo Stato crea deficit per finanziare sprechi, triple pensioni, sussidi, sovvenzioni ad amici e ruberie, crea inflazione. Se crea deficit per creare infrastrutture che aumentano la produttività generale del Paese, no.

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