Roghi

Beniamino Gigli e Cloe Elmo in un memorabile dialogo verdiano

Lui è il bel trovatore Manrico, lei la zingara Azucena. Lui la crede sua madre, lei l’ha scelto come figlio e tanto basta perché si amino profondamente. Il conte di Luna li ha sbattuti in prigione (“orrido carcere”, specifica la didascalia) dove Manrico ricambia l’affetto di tutta una vita cercando di far addormentare la mamma, che sta male, rivede il rogo su cui già bruciò sua madre e va quasi in delirio. Se ancora mi ami e se un figlio può ancora farsi ascoltare da un genitore, per favore dormi. Sì, ma se vedi la fiamma (la vampa di quell’aria famosa già cantata nel II atto, che il compositore ha appena citato come un leitmotiv ossessivo) mi raccomando, svegliami. Poi vagheggia un ritorno a casa, fra i monti, e una vita quasi da cortigiana, o da tranquilla borghese che riposa nel suo chalet svizzero-aragonese, mentre il figlio è lì nella cameretta a strimpellare il liuto. È una delle scene più tenere di tutto il teatro verdiano, che sul tema della paternità/maternità gioca e s’interroga tantissimo. Qui con il celebre Beniamino Gigli accanto a Cloe Elmo, leccese che anche a Lecce molti hanno forse dimenticato.

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