Tradizione e novità nella musica argentina: le storie di Daniel Melingo
Pare che il tango sia nato nei bordelli, il suo universo è da sempre un ambientino poco raccomandabile. Ogni alba può far luce sul corpo di un compadrito pugnalato o su una guancia sfregiata. Borges lo considerava la comédie humaine di Buenos Aires e, pur non amando tanto la sua versione nobilitata e sdoganata via Parigi, ipotizzò che si sarebbe potuta ricavare un’intera Iliade dalla fusione dei testi di tutti i vecchi tanghi. Chissà cosa penserebbe di Daniel Melingo, che al tango ci è arrivato via rockabilly-reggae-ska, fumetti argentini e un po’ di movida spagnola, e oggi lo amano a Parigi come a Londra (e forse a Cremona: dal suo myspace risulta che andrà a suonarci il prossimo 28 maggio). Melingo interpola questa Iliade di perdenti con le sue personalissime pennellate. Dalle mie parti c’era uno che si faceva il guappo, ma era una mezza tacca di cattivo. Usciva di notte, rientrava al mattino. Lo chiamavano Narigón, nasone, per quanto sniffava. Gli dicevano: prima o poi dovrai farla finita, hai voglia a mettere acqua nel mate, a un certo punto non ne cavi più niente. E fu così che s’intossicò e ci rimase stecchito, duro come una statua.
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