Non so che cosa voglio dire con questa cosa che ho scritto e, soprattutto, odio fare l'abstract in queste occasioni nelle quali scrivo un po' come mi viene…Quindi: se vi va leggete e commentate il pezzo, altrimenti non fa niente, tanto ormai l'ho scritto e pubblicato…
La paura di una strada costeggiata da un canale profondo e nessuna protezione tra la stretta striscia di asfalto e il fosso. Gelato. Che separa da una pianura innevata infinita. Che termina con qualche luce lontana che non si riesce a capire a chi o cosa appartenga. Sarà un paese, una città, una fabbrica. Un’autostrada. Paura. Perché quella strada non la si conosce. Le poche indicazioni stradali sembrano essere state messe apposta per confondere le idee: qualcuna sbiadita, qualche altra con la punta piegata che non si capisce niente. Rotatorie. “Tornate indietro quando potete” dice il mio navigatore. E se potessi tornerei indietro. Tornerei a quando dopo la guerra c’era fiducia in un futuro migliore. C’era fiducia in qualche persona che fino a poco tempo prima lavorava con te nei campi come Giuseppe Di Vittorio. Che fino a pochi mesi prima pativa il freddo di una guerriglia in montagna come Ferruccio Parri, Luigi Longo. Che soffriva in una cella come Sandro Pertini. E li si votava perché erano quelli che avevano studiato e sapevano parlare. Erano quelli che, sempre come Di Vittorio, avevano risparmiato per comprarsi il vocabolario. E ora usavano quelle parole lette nel libro delle parole. Semplici. Essenziali. Libere. “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Quanta poesia, quanta sofferenza. Quanto coraggio in queste parole. Ora siamo fondati su non so cosa. Il sindacato sta morendo in una morsa di nepotismo che lo condanna all’assurda morte voluta da coloro che dovrebbero difendere i lavoratori e che, invece, hanno come solo obiettivo quello di procurare una poltrona e una prebenda ai propri figli. I partiti cancellati perché erano un po’ troppo liberi: magari capitava che nella sezione del più sperduto paese di montagna qualche iscritto avesse un’idea buona per il futuro della sua comunità o dell’Italia e che quest’idea arrivasse a Roma. Troppo rischioso! Meglio eliminare questi contenitori di una democrazia un po’ meno falsa di quella che ci troviamo a vivere oggi. Non c’è niente da fare. Le rivoluzioni sono sempre fatte dalla borghesia che ha di che mangiare e, con la pancia piena, trova il tempo di pensare, di riflettere e di tentare di migliorare la propria condizione. Oggi ci prendono per fame. Ci tengono in uno stato semi vegetativo. In uno stato comatoso. Dove le idee non possono circolare. Non si ha il tempo e il modo di abbandonarsi a qualche pensiero che sia al di fuori di quelli imposti dai ritmi del lavoro e della sopravvivenza. E la borghesia è sparita: pochi hanno fatto il salto entrando nei salotti buoni. Molti sono retrocessi a ceti più popolari. Gli studenti fanno finta di inscenare qualche protesta ogni anno, ma la maggior parte lo fa solo per “vedere l’effetto che fa”. Poi tutto svanisce. “Tornate indietro quando potete”. Voglio una piazzola. Voglio fare inversione! Anzi no! E’ da vigliacchi. E allora voglio fare l’eroe. Come tanti eroi. Come le madri che lavorano e che si svegliano alle 6 di mattina accompagnano i figli a scuola, poi vanno al lavoro e svolgono il proprio dovere alla perfezione, poi riprendono i figli da scuola e li portano in palestra, poi a danza, poi tornano e fanno da mangiare per tutta la famiglia. Poi mettono a letto i bambini, sistemano casa, fanno una carezza ai propri mariti troppo stressati (loro!) dal lavoro e crollano esauste. La mattina successiva una molletta tra i capelli e un sorriso dolcissimo, che nasconde gli occhi cerchiati dalla stanchezza, da regalare a chiunque incontrino. L’altro giorno in un tg parlavano di Bettino Craxi “morto in esilio da eroe”.
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