Che poi il problema non è digerire la pappa indigesta che ci propina Amadeus, il problema è che quella pappa sembra proprio appetitosa. Ha il giusto equilibrio di confort food e piccantino, un retrogusto dolce e amaro, così autentico, ma solo in fondo, all’una e 40 di notte, quando ormai il mappazzone l’hai strafocato, in attesa di quel guizzo che sorprenda le tue papille gustative. La sbobba te la sei fatta piacere, per quel meltin’pot di progressismo e tradizione, avanguardia e retrovia, che ti fa pensare “vabbè, l’importante è che di questi temi si parli, meglio che niente”.
Se non possiamo essere “Libere tutte”, meglio “Pensati libera”, che niente.
Perché poi, ha ragione lei, ché se sta lì su quel palco, ti pare che non sia possibile esserlo, libera?
E se l’ha fatto lei puoi farlo anche tu, basta “pensarti” libera. Smettila di frignare e pensa. Pensa forte e “pensati libera” e lo sarai. “Ti sembro un passo indietro”?, sfidò la prima presidente del consiglio donna, che non a caso fece diramare un comunicato per precisare che era “il”, non “la”.
E vabbè, meglio che niente.
Meglio “un” presidente donna, che niente. Almeno qualche altra bambina della Garbatella potrà pensarsi libera e poi vincere la competizione, perché “uno su mille ce la fa”, l’ha detto pure Morandi e deve essere vero. E’ così che si fa, è così che è. Le altre 999 non ce la fanno perché non si sono pensate abbastanza libere, echecazzo! Diciamocelo.
Meglio che niente, pensi, prima che quel gusto meltin’pot che è andato giù liscio ti si riproponga con la pesantezza del minestrone che ha quell’ingrediente sbagliato ma non sai quale.
Già, quale? Forse la cipolla.
La cipolla nel minestrone non ci sta.
Eppure c’è tutto: i giovani, i giovanissimi, le donne, gli anziani. Quelli che in smoking, quelli che le zeppe, quelli che manco i village People, quelli che la reunion, quelli che.
C’è tutta l’Italia, su quel palco. Come si fa a dire che non va bene, quel palco?
Chi lo dice, se lo dice, è un ladro o una spia. C’è l’inno e c’è “il” presidente, porca miseria. C’è pure la letterina di Zelensky, perché siamo pacifisti sì, pacifisti, avevate dubbi? Le armi le mettiamo in mano agli altri, mica a noi. C’è pure Benigni che pontifica sull’articolo 21 della Costituzione, sulla libertà di stampa e d’espressione, dopo aver protocollato la querela a Report.
Beh, se manco Benigni ti piace più, non sei italiana.
Ma allora perché quella brutta sensazione di spina di pesce di traverso che manco un kilo di pane masticato a forza riesce a farla andare giù?
Nel minestrone la spina di pesce? Ma che vai a pensare?
Ormai son quattro anni che Amadeus ripropone il solito schema: maschio Alfa direttore artistico circondato da donne fuori contesto, prese da altri settori in cui eccellono e scaraventate giù con un calcio in culo da quella scalinata che mette paura a tutti, per vedere l’effetto che fa.
“Co-conduttrici”, in realtà vallette – ma vallette non si può dire, si può solo fare – trattate dai due conduttori-monumenti dello show-biz con paternalistica accondiscendenza, incoraggiate come si fa con le bambine e quindi sminuite nella loro professionalità, perché non è la loro professionalità che hanno portato su quel palco.
E che cosa hanno portato, dunque?
Per rispondere vi propongo un esperimento: facciamo finta che.
Facciamo finta che a condurre Sanremo siano due donne monumenti dello spettacolo, tipo Simona Ventura e Paola Cortellesi. Ecco, appunto.
Simona Ventura nel 2004 chiamò Cortellesi che fece il suo lavoro, l’attrice, cantando una canzone, “Lascivia”, che prendeva in giro la canzone “da festival” e le cantanti “da festival” e l’immaginario “da festival”. Gli italiani ridevano, con lei, di se stessi, perché satura tota nostra est e perché nella satira c’è la più libera rappresentazione sociale che si possa avere. Nei regimi non c’è satira. C’è indottrinamento.
Raffaella Carrà nel 2001 presentò affiancata da Piero Chiambretti, Enrico Papi, Megan Gale e Massimo Ceccherini, ai quali chiese di fare nient’altro che quello che sapevano fare, ossia spettacolo.
E poi andiamo ancora più indietro fino al 1986 per trovare Lorella Goggi, conduttrice principale, affiancata da Anna Pettinelli e due uomini, Mauro Micheloni e Sergio Mancinelli, speakers, dj, mentre il mitico Sandro Ciotti faceva i collegamenti dal Casinò e a farci ridere ci pensavano quelli del Trio, Tullio, Solenghi, Lopez. Insomma: ognuno faceva il suo, faceva quello che sapeva fare e per questo stava lì.
La scelta perversa di prendere delle donne fuori contesto e farle comportare come scimmie ammaestrate e impacciate, facendo fare loro delle cose per cui non sono preparate, e dunque facendole apparire indifese, povere bimbe da consolare e rassicurare – cosa che in effetti Amadeus generosamente non smette di fare- è tutta ascrivibile ad Amadeus.
Quelle donne che nel loro lavoro sono monumentali, sul quel palco, sono donnine piccine piccine inesperte e smarrite, al cui cospetto è il maschio Alfa ad apparire totemico.
Alle donne poi è affidato il compito di farci la morale.
Ma perché alle donne Amadeus sceglie sempre di far recitare dei sermoni su temi trend topic? Delle prediche chiamate monologhi che ci spiegano la vita. Lopez direbbe che il dottor Cane vuole la linea edificante (questa è per la comunità di Boris). La linea edificante è affidata alle donne: perché?
Forse perché alle donne la società deputa il compito di educare? Forse per ricondurle al loro ruolo di educatrici-mamme? “Adesso siediti lì ché ti devo dire due cose”, minaccia la mamma. E noi obbediamo.
Forse perché concede loro le quote rosa, affinché possano “pensarsi libere”?
“Fin dal primo anno ho pensato di invitare non solo per giocare e scherzare, ma per parlare di qualcosa o anche per fare una denuncia di cose che appartengono al mondo femminile, purtroppo. Oppure per parlare della loro vita. Massima libertà”. Ha dichiarato Amadeus in conferenza stampa. Ecco, infatti, il sessismo all’improvviso: le donne le prende “per parlare di qualcosa”, “per fare una denuncia di cose (sic!) che appartengono al mondo femminile”.
Le donne devono dimostrare di avere un cervello e le fa parlare.
Essere delle professioniste e salire sul palco per fare quello che sanno fare, non basta. Non stanno lì perché sanno fare qualcosa, ma proprio perché non la sanno fare. Stanno lì per dire che il festival è talmente per tutti, è talmente italiano, che perfino le donne possono parlare. Una volta l’anno.
Sanremo non è più solo il “festival della canzone italiana”, ma è diventato da tempo, direi da quando Pippo diede voce agli operai dell’Italsider e poi “salvò” un operaio da un congegnato tentativo di suicidio, Sanremo dicevo, è diventato da tempo una pratica rituale. Sanremo è l’Italia che rappresenta se stessa senza mai sfondare la quarta parete e anzi stando dentro una cornice che è ascrivibile alla rappresentazione dei valori della maggioranza. Per dirla con il sociologo Durkheim, attraverso tale pratica, i membri della comunità esprimono la propria comunanza di visioni e rappresentazioni della realtà. Visioni e rappresentazioni che, affinché siano condivise, devono essere comunicate. Amadeus si prodiga di comunicarle in vari modi, ritagliando perfettamente il ruolo di donne e uomini nell’alveo della tradizione.
Perfino il bacio imposto da Rosa Chemical a Fedez non ha nulla di rivoluzionario ma è sorprendentemente rassicurante: sono semplicemente due maschi etero che giocano a fare gli omosessuali, e dunque, non appartenendo alla comunità LGBTQ+, li macchiettizzano, li ridicolizzano, tranquillizzando l’italietta omofoba, perdipiù facendo passare il messaggio che un bacio imposto è amore e non sopraffazione. “M’è preso l’amore”, ha detto Rosa Chemical sul palco e nessuno della Rai s’è preoccupato di dire che un bacio imposto non è amore ma violenza. Il messaggio è passato, perché the show must go on.
Qualche dottor Cane cadrà, perché un bacio fra due uomini non si può proprio vedere, signora mia.
Ma Sanremo non è solo uno show, come abbiamo detto, è diventato un rito, attraverso il quale l’Italia si pensa libera e quindi pensa di esserlo, mentre invece rappresenta e comunica una gerarchia fissata da un potere dominante che è quello maschile, bianco, occidentale, neoliberista. Ed è in quel sistema di potere che Chiara Ferragni si muove, benissimo, competendo e vincendo, lei, che è una su mille che ce la fa, scaricando sulle altre, donne, povere, bianche, nere, provenienti da ogni Sud-geografico-economico-culturale, colonizzato da quel potere dominante maschile che si identifica col patriarcato, la responsabilità personale e non invece collettiva, di non potercela fare.
Il femminismo di Chiara Ferragni è dunque sì, femminismo, ma un femminismo che si muove in quella gabbia, mentre dichiara di emanciparsene indossandola simbolicamente per lanciare un messaggio a quelle 999 che devono rompere le sbarre. Da sole.
Quello di Ferragni non è un “femminismo per tutti”, come scrive bell hooks, femminista, sociologa, afrodiscendente americana, che voleva che il suo nome fosse scritto in minuscolo perché “la causa è più importante della persona”.
Quello di Ferragni invece è un femminismo scritto tutto a caratteri maiuscoli, un femminismo machista, per se stessa, anzi, il meme del femminismo. E lei nei meme è bravissima. Così brava da farti scendere giù quella maledetta spina di pesce mentre pensi, vabbè, l’importante è che di questi temi si parli, meglio che niente. Almeno a Sanremo.
Almeno, forse, da domani qualche bimba della Garbatella comprerà una magliettina in più con l’occhio celeste bistrato di nero stampato davanti e si penserà libera.
E tutto va bene.

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