Il 41 bis è ancora necessario nella lotta alle mafie

Che senso ha rieducare chi non vuol essere rieducato tantomeno risocializzato? Se esiste il diritto alla libertà morale (inviolabile in base all’art. 2 Cost.) la persona può decidere di non volersi rieducare e risocializzare?

di Vincenzo Musacchio

Il regime di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario è uno strumento normativo che si è dimostrato efficace nel contenere il potere dei boss mafiosi ristretti in carcere. La sua efficacia è comprovata dal fatto che i boss non riescono più a impartire ordini con la facilità di un tempo ai propri affiliati fuori dal carcere. È uno strumento di prima linea, indispensabile assieme alla confisca dei beni, nel contrasto alle mafie.

Sono rimasto uno dei pochi ad essere favorevole al “carcere duro” per i mafiosi. Mi conforta avere il sostegno morale di Giovanni Falcone che lo volle fortemente, ma, purtroppo, dovette morire per vederlo realizzato. Le contestazioni che si sollevano contro il 41 bis riguarderebbero sostanzialmente alcune modalità troppo afflittive. Le uniche limitazioni, invece, riguardano soltanto i contatti con l’esterno più che il vero e proprio benessere dei detenuti.

La riflessione sul 41 bis va focalizzata sul suo scopo:

un detenuto è sottoposto a regime differenziato quando sia riconosciuta la sua attuale capacità di collegamenti con l’associazione mafiosa, nonostante lo stato di detenzione ordinario.

Le prescrizioni del regime sono decise da un giudice che valuta il bene della sicurezza pubblica prevalente sulla libertà di comunicare con la propria organizzazione criminale. Il 41 bis ha portato a impedire omicidi e sono stati inferti duri colpi alle attività economiche illegali con cui le associazioni criminali si finanziano. Questi, credo siano benefici di non poco conto. Una critica a mio parere priva di fondamento è proprio l’inumanità del 41 bis. La lotta alla criminalità organizzata in carcere passa attraverso varie offerte trattamentali anche a detenuti recalcitranti alla rieducazione. Il 41 bis di oggi è un provvedimento personale sottoposto all’esame di un giudice. Non lo era in passato e poteva essere applicato in base ad una scelta discrezionale dell’amministrazione penitenziaria. Attualmente c’è la piena osservanza dei principi di legalità e di giurisdizione.

Abolire il 41 bis sarebbe un grandissimo favore fatto alle mafie.

Pur se legittima, giudico molto negativamente una simile proposta. Il principio rieducativo della pena non è affatto leso poiché è ovvio che quando si palesassero segnali di eventuale redenzione, l’ordinamento penitenziario preveda la possibilità di attenuare il rigore della pena. Meccanismo, peraltro, vigente nel nostro ordinamento penitenziario. Forse dovremmo chiederci:

chi si rifiuta di essere rieducato deve essere trattato al pari di chi invece accetta la rieducazione e lo fa con atti concreti? Che senso ha rieducare chi non vuol essere rieducato tantomeno risocializzato?

Vorrei che mi si spiegasse come si può rieducare uno che non vuol essere rieducato! Se esiste il diritto alla libertà morale (inviolabile in base all’art. 2 Cost.) la persona può decidere di non volersi rieducare e risocializzare? Se esiste l’uguaglianza tra i cittadini (anch’essa inviolabile ai sensi dell’art. 3 Cost.) si possono applicare trattamenti simili quando sarebbe la loro applicazione a determinare le discriminazioni? Saremmo capaci di rieducare uno che ordina di sciogliere il figlio di un pentito di mafia nell’acido per punire la sua decisione e per dare un monito a tutti gli altri associati? Chi ordina delitti efferati come l’uccisione di un bambino senza essersene mai pentito può godere del principio di rieducazione se non rinnega minimamente il suo passato, anzi ne va fiero? Non basta il pentimento e il perdono, il reo deve risarcire concretamente le vittime, i familiari e la società con la propria opera sia da carcerato, sia da uomo libero. Se così non fosse, si farebbero solo discorsi pieni d’ipocrisia.

La lotta contro la criminalità organizzata non si esaurisce di certo con l’arresto dei singoli appartenenti alle mafie. Il carcere è sicuramente uno strumento utile a questa lotta. In questo senso, quando esponenti della criminalità organizzata sono assicurati alla giustizia, lo Stato ha il dovere di custodirli e, come dice la Costituzione, tendere a rieducarli e a reinserirli nella società. Di certo, con esponenti delle organizzazioni mafiose che hanno intrinseca, dentro di sé, una concezione distorta dello Stato, quest’opera è più impegnativa e maggiormente specifica. Chiunque delinque sa che alla fine finirà in carcere. È quasi un percorso obbligato. I mafiosi però sono delinquenti “particolari”. Il potere dei boss sta tutto nel gestire il proprio clan. Prima del 41 bis i capi governavano il clan tranquillamente dal carcere, continuando a impartire ordini ai sodali in libertà. Il 41 bis, nonostante assicuri loro una carcerazione “privilegiata” (camera singola, nessun problema di convivenza come condivisione della televisione, del bagno, degli armadi), ha come contrappeso la limitazione dei contatti con l’esterno. È questo il più grande danno che si possa arrecare a un boss: privarlo del suo immenso potere di comando e della gestione delle sue risorse economiche.  Finché non si comprenderà quest’aspetto del 41 bis, si continueranno a dire e a scrivere molte cose inesatte.

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