Lamara

Nella monarchica, clericale e claustrofobica Lecce “la Mara” è stata per tanti e per anni il fool shakespeariano, il pazzo che contesta l’ordine costituito, ma essendo l’unico a farlo, nella sua contestazione l’ordine costituito trova il rafforzamento di se stesso.
Negli anni in cui la Mara lavorava, quelli come lei si chiamavano “travestiti” e nessuno aveva nulla da ridire. Antonio Lanzalonga fece i soldi vendendo il suo corpo nella Genova di De Andrè, e ne fece tanti altri a Lecce. Girava con un minichic scassato e una parrucca rossa o bionda coi riccioli, il rossetto eternamente sbavato. Abitava alle spalle del monastero delle Benedettine, che per decenni hanno assistito, da dietro le sbarre del convento di clausura, al via vai degli uomini in grisaglia. Coi loro soldi Mara ha comprato decine di bugigattoli nel quartiere delle Giravolte, dove stipava a prezzi salati i primi migranti che arrivavano nella città barocca in cerca di una vita semplice: un lavoro, una casa, che era quella che offriva la Mara, tra i topi e gli scoli di fogna. Odiata e rinnegata dai suoi parenti, convinta peccatrice, ha donato i suo patrimonio miliardario alle Benedettine. Forse le uniche ad averla capita, in quel loro osservare muto, unite a Mara da una femminilità negata, le une per scelta, l’altra per un’infame volontà della Natura. MLM

 

Di nascosto, nella notte.
Si diedero appuntamento dietro la cattedrale, ma fecero male i loro calcoli. Erano tanti, troppi. Affollarono il vicolo e alla fine divennero una fila, una coda che straripò anche sulla strada principale.
Accadde, però, qualcosa di strano. Lecce, che da sempre soffre dell’insonnia giovane dei suoi studenti universitari, quella notte sembrò volerli proteggere. Li nascose. Nessuno, nel centro storico, notò quello strano assembramento, né il passaggio del carro funebre, che, a fatica, si fece largo tra gli astanti, fermandosi di fronte a quella porticina segreta sul retro del duomo.

Un prete si affacciò agitatissimo sull’uscio, pregando i necrofori di fare in fretta con la bara e invitando la folla ad accomodarsi. Ma i convenuti non furono lesti, perché la vista della cassa che conteneva Lamara li bloccò.
Restarono pietrificati.
Lamara.
Morta.
Non sembrava vero.
Non poteva essere vero.
E invece era proprio così. Il travestito più famoso del Salento non era più. E tutti quegli uomini di mezz’età piangevano come bambini, come orfani, anzi, forse molti di loro davvero non avevano mai versato tante lacrime, neanche al funerale dei loro genitori.
“Fratelli, siamo qui per dare l’estremo saluto alla nostra sorella Lamara – cominciò Don Narosa, sacerdote notoriamente affetto da ginecomastia, che era stato amico e confidente della defunta quand’ella era in vita – e dobbiamo farlo così, di nascosto”.
Sospirò.
“La Chiesa, che qui indegnamente rappresento, ancora non è pronta, ancora non sa gestire bene certe… Certe cose… Voi sapete che la nostra sorella aveva chiesto che i suoi funerali fossero celebrati qui in duomo, ma qualcuno lassù (e quando dico lassù non mi riferisco a Nostro Signore) lo ha ritenuto sconveniente… E lo ha proibito senza tener conto del fatto che la nostra amica ha dato disposizione che i suoi ingenti beni vengano devoluti alla nostra diocesi… Ecco, dunque, il motivo di questo secondo funerale clandestino, realizzato con l’apporto e la complicità, anche economica, di tutti voi, che, come me (Dio ci perdoni), non riuscite ad accettare una simile ingiustizia”.
Gli astanti chinarono il capo commossi, ognuno aveva della defunta almeno un ricordo piacevole, spesso gaudente, sebbene contornato da qualche breve alterco. Correva voce che Lamara fosse ricchissima in virtù della sua avidità patologica e che le sue grazie costassero molto non soltanto in denaro, ma anche in ricatti (lo dico a tua moglie, alla tua famiglia!). Si diceva anche che fosse intransigente con gli inquilini cui affittava gli appartamenti delle palazzine fatiscenti, che aveva acquistato con i sudati guadagni di una vita.

Eppure tutti quegli uomini, della genie più varia, di tutte le classi sociali, dal detenuto, al giudice, all’imprenditore, al politico, avevano smosso mari e monti, minacciato e corrotto decine di persone, pur di regalare a Lamara quel funerale che tanto aveva desiderato.
“Era tanto brava – disse Don Narosa, proseguendo la sua omelia.
“Sì, era brava”,
“Quant’era brava…”,
“Eh, se era brava!”, gli fece eco, con gli occhi umidi, quasi senza accorgersene, la folla.
“Perché, vedete – continuò il prete – io non so perché Lamara avesse fatto certe scelte… Lei diceva sempre “ho fatto del male soltanto al mio corpo”… A volte, la sua, mi sembrava una vocazione, come… Sì, sembra una bestemmia… come la mia… E, sì, aveva difetti enormi ed era una peccatrice, ma… Ma quante delle sue colpe dipendevano da lei? Se avesse trovato da giovane qualcuno in grado di capirla… Qualcuno che la aiutasse a gestire quel corpo maschile e quell’indole femminile… Se i suoi stessi familiari non l’avessero disprezzata e cacciata via… La sua vita avrebbe potuto essere diversa?”

Senza rendersene conto, il prete portò le mani al petto e strinse la sua ginecomastia, ovvero le sue mammelle femminili, che avrebbe potuto curare chirurgicamente, se non fosse stato per quell’altra malattia che gli avrebbe impedito di sopravvivere all’operazione. Era stato sempre un uomo di chiesa integerrimo, ma quel petto aveva alimentato chiacchiere e dicerie, fino a far sì che prelati e fedeli lo relegassero a un ruolo secondario, infimo, di serie B. Lamara era stata sua amica e, con quella sua filosofia spicciola, pratica, spesso volgare, lo aveva aiutato a sopportare la sua condizione. Era stata lei, il suo confessionale.

“Questa nostra sorella per gli altri era un diverso, per voi era… Per me era un’amica… – riprese il sacerdote – L’eterno riposo dona a lei, Signore, risplenda a lei la tua luce perpetua…”

Quegli uomini, grandi e piccoli, che a Lamara avevano dato e da Lamara avevano preso tutto, quei mariti che erano fuggiti, a volte, da un ménage familiare noioso, quegli ipocriti che di giorno la insultavano e di notte la cercavano, quei vigliacchi che non avevano avuto lo stesso suo coraggio di rivelarsi, si segnarono.
Qualcuno mandò un bacio, qualcuno gettò un fiore, qualcuno si rammaricò di non potersi più prenotare per due ore.

Con la stessa strana magia che aveva fatto per l’andata, Lecce protesse il ritorno.
La bara di Lamara lasciò il duomo e fu caricata sul carro funebre, che uscì dal centro storico come fosse invisibile, come fosse fatato e riportò la cara salma al cimitero, dove, la mattina dopo, sarebbe stata tumulata.
Il desiderio della defunta era stato in qualche modo esaudito.
La folla si disperse. Don Narosa rientrò in chiesa, si inginocchiò davanti all’altare e cominciò un rosario.
Sulle sue biascicate ave marie finiva una leggenda.
Ma, altrove, le cose andarono come dovevano andare e Lamara, alla stazione successiva, trovò molta più gente di quando partiva.

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