//SPECIALE SANTU PAULU// Un rapido sguardo alla storia del tarantismo e alla sua evoluzione nel contesto salentino: da malattia a musica del folklore
di Valentina Isernia Il rito della tarantola rappresenta un fenomeno ancora in fase di studio. Gli antropologi devono districarsi in un percorso ad ostacoli fatto di miti, leggende, racconti reali e documentazioni spesso poco oggettive. Riconoscere una precisa origine storico-geografica del rito, dunque, risulta arduo se non impossibile. Le prime testimonianze storiche sembrano risalire alle cronache medioevali anche se i riferimenti al rito nella forma in cui lo conosciamo oggi, fortemente legato alla simbologia musicale, compaiono in alcuni trattati medici datati intorno al 1300. Nel 1600-700 il tarantismo viene ufficialmente dichiarato malattia e la forte valenza magico-simbolica attribuita al fenomeno dai pugliesi induce la chiesa a censurarne le manifestazioni. Si tratta, probabilmente, di una censura impossibile per un rito così radicato nel contesto socio-culturale del territorio; la strategia della chiesa cambia e si avvia un processo verso il sincretismo tra il rito tribale ed i culti religiosi. E' così che la figura di san Paolo viene affiancata a quella del ragno e la cappella a lui dedicata, a Galatina, fu per molti anni scenario di un rito che, gradualmente, ha preso le sembianze di un rituale esorcistico. Il problema coinvolgeva soprattutto le donne, che in passato vivevano una situazione di costante controllo patriarcale e che cercavano nella danza sfrenata e per certi versi oscena il riscatto sociale desiderato; questo spiegherebbe anche la modalità ciclica della possessione: una volta morsi il veleno si rigenerava di anno in anno e il rito doveva ripetersi. Tania Pagliara, in un recente articolo ci spiega come avveniva il rito: esso “…consisteva nell'individuare prima il tipo di suono preferito dal ragno, poi il colore scelto dalla tarantolata tra i vai fazzoletti o nastrini colorati. Iniziava così il rituale, con musica, cori e la danza terapeutica della taranta. Secondo il sociologo Lapassade il Salento, punto di incontro tra oriente ed occidente, dove si mescolano culture diverse e contrastanti, definisce la sua etnia tramite questo rito. ‘L'identità salentina si definisce come un'identità sincretica e perciò plurale… È essenzialmente aperta… corrisponde ad una compresenza di voci diverse, e perciò ad un viaggio, ad un esodo'. Nelle trance i tarantati infatti dialogavano con un mondo magico-mistico plurale, con più voci, ritualizzando il male attraverso la musica, il suono, la danza, capaci di integrarli in una nuova unità individuale”. Gli anni '70 del '900 videro poi una vera e propria trasformazione della musica e dei ritmi proposti durante il rito come vera e propria musica etnico-popolare. “Le difficoltà affrontate da questi gruppi furono numerose, sia da un punto di vista tecnico, nel creare spartiti e musicare un suono di trance censurato da secoli, sia da un punto di vista propositivo nei confronti di una popolazione che lo rifiutava perché lo associava all'ignoranza ed alla malattia. Ci vollero decenni, con il supporto dell'Università del Salento e di un movimento numeroso di artisti, intellettuali ed animatori, per arrivare al successo del folk salentino. Quanto più la pizzica veniva accettata, tanto più esplodeva il fenomeno del neotarantismo, osservabile ancora oggi nelle sagre e nelle feste della tarantola”
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