Caporal maggiore Savino, colpito da melanoma: ‘Lo Stato mi ha abbandonato’

30 ottobre 2012 Caporal maggiore Savino, colpito da melanoma: ‘Lo Stato mi ha abbandonato

“Sarebbe bastato che mi avessero detto: signor Savino non sappiamo se esista o meno il nesso di causalità tra la sua malattia e il servizio prestato per il Ministero ma le siamo profondamente vicini. Ho ricevuto invece solo silenzi”. A parlare è Erasmo Savino, 31 anni, caporal maggiore capo dell’Esercito. Impiegato in due importanti missioni in Kosovo, dal 1999 al 2001, nel 2010 gli viene diagnosticato un melanoma nodulare ulcerato sotto il dito del piede, per anni erroneamente considerato dai medici come formazione callosa. Congedato nel marzo 2012, oggi ha nove metastasi ai polmoni, una piccola al fegato e una al cervello. “Il melanoma è molto aggressivo – afferma con voce decisa – ma ho fiducia e mi sento forte. Ho voglia di combattere e questa credo sia la medicina giusta”. Combattere. È questo l’unico “ordine” che Erasmo eseguirà in futuro. Non solo contro la malattia ma anche contro l’assordante silenzio del Ministero della Difesa, che non ha mai risposto all’istanza di riconoscimento della causa di servizio presentata il 16 dicembre del 2010. “Un silenzio – dice il legale di Erasmo, l’avvocato Giorgio Carta – che ci ha costretti a rivolgerci al Tar, nonostante la legge imponga al Ministero di rispondere entro 270 giorni. Questo ci ha almeno permesso di ottenere una anticipazione del parere negativo del Comitato di Verifica delle cause di servizio e di presentare prontamente delle controdeduzioni. Il procedimento è pertanto dopo quasi due anni ancora in corso”. Erasmo, intanto, continua a combattere. “Bisogna denunciare e non rimanere nell’anonimato – conclude – anche perché quello che raccontiamo io e molti miei colleghi ammalati è la verità. E della verità non si deve mai aver paura, non ci si deve mai vergognare”.
Quando si è arruolato Caporal Maggiore Savino? Può brevemente illustrarci la sua “storia militare”?
“Mi sono arruolato nel 1998 a 17 anni, ho servito ed onorato con orgoglio la Patria per 13 anni e sono fiero di averlo fatto. Sono stato congedato nel marzo 2012 per un cancro maligno. Come tanti miei colleghi in divisa ho partecipato ad alcune missioni di pace nel territorio operativo del Kosovo negli anni 1999-2000 e nel 2001. L’ambiente bellico in cui operavo era contaminato da bombe e proiettili utilizzati dalla Nato. Prima e durante il servizio svolto in Kosovo sono stato sottoposto ad intensi e ravvicinati cicli vaccinali e mi sono occupato, durante le missioni, dell’installazione di impianti idraulici e termici, sia all’interno che all’esterno delle infrastrutture presenti sul luogo, con la necessità di operare scavi e trafori su differenti tipologie di terreni contaminati e riparare tubazioni ed impianti danneggiati. Ho svolto queste mansioni senza far uso di alcuna precauzione”.
Ma in quegli anni vi hanno mai avvertito del rischio che Lei e i suoi colleghi stavate correndo? “Sinceramente no. Nella prima missione alla quale ho partecipato non si sapeva assolutamente a dell’uranio impoverito”.
Ma Lei pensa che i vertici del comando italiano non sapessero a o che invece pur sapendo abbiano deciso di non avvertirvi del rischio cui andavate incontro?
“A questa domanda sinceramente non saprei risponderle ma non penso”.
Non pensa che i vertici sapessero?
“Si”.
Quindi in un certo senso non erano neanche loro a conoscenza dei rischi…
“Almeno per quanto riguarda la mia compagnia credo non sapessero di questo problema anche se nella seconda missione in Kosovo, quella del 2001, si vociferava del problema tra noi colleghi. Vi erano le classiche voci di corridoio alle quali si faceva immediatamente seguire una smentita”.
Quindi se ho ben capito lei scavava nei terreni senza alcun tipo di protezione?
“Proprio così. Effettuavo degli scavi per fissare e riparare tubazioni. Lavoravamo nei pressi di un canale, con gli anfibi nell’acqua, e quindi il nostro corpo assorbiva più facilmente le contaminazioni del terreno”.
Dal momento in cui le è stata diagnosticata la malattia come si è comportato il Ministero della Difesa?
“Il Ministero è stato del tutto assente. Non ha mai risposto, in due anni, alla mia istanza di riconoscimento della causa di servizio, presentata il 16 dicembre 2010, al punto che, assieme ai miei legali, ho deciso di rivolgermi al TAR. Il mese scorso ho finalmente ottenuto risposta dal Comitato di verifica delle cause di servizio nella quale si precisava che non vi è nesso di causalità tra la mia malattia e le particolari condizioni operative ed ambientali, caratterizzate dalla presenza massiccia di uranio impoverito, in cui ho svolto il mio incarico. Dal Ministero in tutti questi anni non ho mai ricevuto neanche una telefonata. E come non aver riconosciuto tutto ciò che di buono ho fatto in questi anni. Sarebbe bastato che mi avessero detto: ‘Signor Savino non sappiamo se esista o meno il nesso di causalità tra la sua malattia e il servizio prestato per il Ministero ma le siamo profondamente vicini’. Ho ricevuto però solo silenzi”.
Lei ha fatto riferimento ad intensi cicli di vaccinazioni. Come le sono stati somministrati? Cosa ricorda di quei momenti? Come era gestita la procedura del consenso informato?
“Devo premettere che una volta che firmiamo il consenso informato la responsabilità per gli eventuali effetti collaterali delle vaccinazioni ricade su noi militari. Quando facevamo questi vaccini andavamo ovviamente a gruppi. Io consegnavo il libretto vaccinale, mi somministravano il vaccino e me ne andavo. Non veniva spiegato a. Non ci veniva detto a cosa serviva, che effetti poteva produrre, da cosa era costituito. Ci veniva solamente detto che in missione si potevano contrarre delle malattie e che questi vaccini servivano ad evitare il contagio”.
Quindi lei ha firmato, come dire, sulla “fiducia”…
“Eravamo obbligati a farlo, eravamo costretti a firmare e a fare i vaccini perché altrimenti non si sarebbe potuto partecipare ad una missione fuori area. E quindi io come tanti altri li abbiamo fatti per questo motivo e per non rischiare una sanzione disciplinare e il posto di lavoro. Oggi chi rifiuta di firmare il consenso informato e quindi la somministrazione del vaccino viene anche denunciato penalmente, come il caso del Maresciallo Luigi Sanna, di Cagliari, che rischia un anno di carcere. Io in un anno e mezzo ho fatto 14 dosi di cicli vaccinali, perché pensavo fossero una cosa utile però leggendo e approfondendo le conoscenze ho capito, in una fase successiva, che così non è, soprattutto se, come è accaduto al sottoscritto e a molti altri ragazzi, si ripete la somministrazione di vaccini per malattie rispetto alle quali si è già ampiamente ‘coperti’, grazie ai vaccini fatti in precedenza. Ritengo che ciò sia molto grave”. Sulla diretta correlazione tra il melanoma nodulare ulcerato di Erasmo e il mancato rispetto dei protocolli medici nella somministrazione delle vaccinazioni, si sofferma anche l’avv. Carta sottolineando come, riguardo al caso del suo assistito, questa sia la tesi prevalentemente sostenuta . Il legale precisa che “la guerra con l’amministrazione della Difesa inizierà quando ci risponderanno che non vi è alcun nesso di causalità. Inoltre, sarebbe opportuno – prosegue Carta – che la somministrazione del vaccino non sia assolutamente obbligatoria e questo il ministero lo esclude. Io vorrei che al militare, sulla base dell’articolo 52 della Costituzione, fosse riconosciuto il diritto di non vaccinarsi. Sinceramente che io o i miei eredi siano risarciti un domani del mio tumore mi sembra troppo poco. Mi sembra invece più utile ribadire che deve essere riconosciuto ai militari il diritto di non vaccinarsi e deve essere preteso il rispetto dei protocolli medici. Il consenso informato non è e non può essere un obbligo a firmare una dichiarazione. In ambienti militari – conclude – c’è una totale violazione delle basilari norme di sicurezza dei lavoratori e stando così le cose non ci sono le condizioni per una concreta convivenza tra diritto alla salute e diritto al lavoro. Dopo le due missioni in Kosovo, nel 2002 Savino rientra in Italia. Due anni dopo inizieranno i primi problemi”.
Quando ha scoperto la malattia?
“Nel 2010. Ma già nel 2004, due anni dopo il mio rientro in Italia mi accorsi di avere una pallina sempre nello stesso punto. Mi è stato detto per anni che era una formazione callosa ma purtroppo col passare del tempo questa pallina cresceva costantemente. Fino al 2009 quando la situazione si è ulteriormente aggravata, fino a non riuscire a portare nemmeno la calzatura.. Stavo morendo e nessuno degli specialisti ai quali mi ero rivolto se n’era accorto. Poi appunto nel 2010 la brutta scoperta”. Con quale frequenza si sottopone ai cicli di chemioterapia e che risultati stanno dando?
“Nel febbraio 2011 ho iniziato il primo ciclo di chemioterapia ma non andava bene perché le metastasi sono arrivate velocemente al polmone. Dopo un primo cambio nel gennaio 2012, ad aprile di quest’anno ho ulteriormente cambiato terapia”.
Come sta adesso?
“Purtroppo gli effetti della malattia ci sono e sono evidenti e le cure non stanno ancora portando effetti positivi. Ho però fiducia e mi sento forte. Ho voglia di combattere e questa credo sia la medicina giusta. Il 2 novembre dovrò fare una TAC e spero che almeno i risultati attestino una situazione di stabilità. Ho nove metastasi polmonari, una piccola al fegato e una al cervello. Il melanoma è molto aggressivo”.
Cosa è per lei oggi lo Stato?
“Sono profondamente deluso perché per 13 anni l’esercito mi ha dato tanto, mi ha formato ed insegnato tante cose. Non mi aspettavo però questo comportamento, un abbandono di questo tipo. La lettera ricevuta dal Comitato di verifica delle cause di servizio, cui ho fatto riferimento in precedenza, mi è sembrato come un ‘grazie ed arrivederci’. Ho ricevuto tanto dall’esercito ma ho anche dato molto. Molti colleghi si trovano nella mia situazione, abbandonati a se stessi. Abbiamo difeso una bandiera in questi anni, onorato la Patria e servito lo Stato. Abbiamo fatto fare bella figura al nostro paese all’estero e quello che mi sta accadendo, che ci sta accadendo non è bello. Bisogna denunciare e non rimanere nell’anonimato, anche perché quello che raccontiamo io e molti miei colleghi ammalati è la verità. E della verità non si deve mai aver paura, non ci si deve mai vergognare”.

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