Riforma fiscale. Costa: ‘Ni’

Roma. Annunciata e mai presentata da Berlusconi. Ma il senatore del Pdl mette in guardia: “La vera soluzione è ridurre i costi di funzionamento dello Stato”

ROMA – La creazione di un fondo che verrà utilizzato per finanziare i futuri sgravi fiscali, rimpinguato dagli introiti derivanti dalla lotta all’evasione, la sostituzione dell’imposta sul reddito delle società (Ires) con una nuova, l’Iri, al fine di tassare di meno l’utile delle imprese e applicare l’Irpef al reddito che l’imprenditore trae dalla sua azienda, la creazione di una black list per i commercianti recidivi e l’applicazione di multe fino al 40%, a seconda degli importi, per coloro che porteranno i loro capitali all’estero. Sono queste alcune delle misure che sarebbero contenute nella bozza di decreto legge in materia fiscale che il Governo Monti si appresta ad emanare. Una riforma, quella del fisco, annunciata più volte dal centrodestra durante le passate esperienze di governo e costantemente presentata dall’ex premier Berlusconi come asse principale di quella rivoluzione liberale che avrebbe dovuto cambiare il paese. Abbiamo voluto ascoltare su queste prime indiscrezioni il senatore del Popolo della Libertà Rosario Giorgio Costa per il quale “non ci si può illudere che con la riforma si crei ricchezza o si riducano le imposte. La vera soluzione per poter ridurre le imposte è la diminuzione del costo di funzionamento dello Stato”. Dalle prime notizie di stampa il premier Monti sembrerebbe puntare sulla creazione di un fondo che andrebbe a finanziare i futuri sgravi fiscali. In questo fondo confluirebbe il gettito derivante dalla lotta all’evasione fiscale. Sarebbe, pertanto, messa da parte la riduzione delle aliquote Irpef dalle attuali cinque a tre (20%-30%-40%) annunciata più volte dall’ex premier Berlusconi. Quale è il suo pensiero in merito? “Io ritengo che il bilancio dello Stato sia un unicum che comprende tanti capitoli, tanti articoli e tante lettere. Nell’articolazione del bilancio si trova la fonte delle entrate e la destinazione delle uscite. Quella di comunicare la creazione di un fondo in cui far confluire il risultato della lotta all’evasione fiscale per poter poi utilizzare la provvista ai fini della riduzione delle aliquote è una comunicazione ad effetto destinata a fare presa su chi, non avendo pratica del bilancio dello Stato, pensa che mettendo dei denari in un salvadanaio o mettendo la targa ad una certa entrata si possa individuare esattamente dove esso vada a finire. La verità è che il denaro è liquido, non ha targa. Va bene la comunicazione se questa può servire a far accettare o giustificare un eccessivo impegno da parte delle forze di polizia tributaria nel reprimere l’evasione ma lo Stato non dovrebbe aver bisogno di dare giustificazioni e assicurazioni. Lo Stato deve poter contare su una fiducia che sia al di sopra di ogni sospetto. È evidente che quando si è fatta la lotta all’evasione, e il Governo Berlusconi l’ha fatta seriamente, il risultato non è stato quello di creare una provvista per acquistare beni voluttuari. Si è invece voluto sostenere la spesa per investimento, cosa che non avremmo potuto fare nel caso in cui non avessimo seriamente contrastato l’evasione. Non è pertanto una grande invenzione quella di creare un fondo a destinazione specifica, bensì una comunicazione di natura pubblicitaria. Per quanto riguarda poi la sostanza delle cose è evidente che la riduzione delle aliquote Irpef a tre doveva rispondere alla necessità di semplificare il prelievo fiscale e di metterci nelle condizioni di poter consentire una più alta soglia di esenzione fiscale, dando la possibilità a coloro che guadagnano quanto basta per sopravvivere di non pagare imposte e tasse. Si volevano ridurre a tre le aliquote irpef per poter maggiorare la seconda e la terza aliquota ed elevare il livello impositivo della prima aliquota. L’obiettivo era, ad esempio, quello di mettere nelle condizioni di poter essere considerati cittadini esentati e non evasori tutti coloro che non riescono a pagare i contributi artigiani o che tentano l’evasione perché sennò muoiono di fame”. Negli anni in cui è stato al governo, l’ex premier Berlusconi ha sempre presentato la riforma fiscale e l’abbassamento delle tasse come pilastro di quella rivoluzione liberale che avrebbe voluto realizzare. Perché non siete mai riusciti a farla? “Non ci si può illudere che con la riforma si crei ricchezza o si riducano le imposte. La vera soluzione per poter ridurre le imposte è la diminuzione del costo di funzionamento dello Stato. Quando si parla di riforma non è che riformando si riduce la pressione fiscale. La pressione si riduce riducendo la spesa corrente, così come l’occupazione si crea producendo nuovi posti di lavoro, vale a dire facendo lo sviluppo. Perché non è più sufficiente raschiare il fondo del barile”. Mi perdoni senatore, forse non siete riusciti a realizzarla perché il premier, che a parole non mancava occasione di professarsi liberale, nei fatti invece si comportava esattamente nel modo opposto? “No, non è così. Uno che fa l’imprenditore non può volere uno Stato parassitario. Tenga conto che la riforma era già nel libro bianco di Tremonti del 1996 quando io iniziai a fare il senatore. In questo documento già si parlava di riforma. Ma la riforma in quel caso non tendeva a ridurre la pressione fiscale perché questa diminuisce solo se si riduce il fabbisogno dello Stato. Uno dei punti forti della riforma proposta da Monti è la traslazione del carico fiscale dall’imposizione diretta a quella indiretta vale a dire dall’Irpef e dall’Ires all’Iva. Obiettivamente l’impalcatura che noi abbiamo nel rapporto tra tassazione diretta ed indiretta risale alla riforma fiscale di Vanoni negli anni Settanta quando lo Stato era diverso, la realtà sociale era diversa. Basti pensare che il paniere del costo della vita si faceva col pane, con la pasta e col latte, mentre oggi nel paniere entrano ad esempio anche i prodotti tecnologici più disparati. Quindi il rapporto è inevitabilmente diverso. Aumentare l’imposizione indiretta, agendo sull’Iva, e riducendo quella diretta è una strada che si può sicuramente battere. Anche noi volevamo fare questo con la nostra riforma. Si farà con i provvedimenti di questo governo tecnico che più o meno sono gli stessi”. Nella bozza del decreto è prevista la sostituzione dell’Ires con l’Iri. L’obiettivo è tassare in misura minore l’utile dell’impresa e applicare l’irpef al reddito che l’imprenditore trae dalla sua azienda. Secondo lei questa disposizione può stimolare un giovane e un comune cittadino ad intraprendere? “La riduzione della pressione fiscale è condizione essenziale per spingere le attività di impresa, professionali e di lavoro autonomo. Non a caso si dice che quando la pressione fiscale raggiunge il punto di rottura, questa è una teoria dell’inventore della scienza delle finanze e nostro conterraneo De Viti De Marco, si verifica l’astensione della persona dal lavoro oppure la situazione in cui la stessa decide di evadere le tasse. E’ chiaro che se si vuole rilanciare l’attività d’impresa bisogna ridurre le tasse. Ma le tasse, come detto in precedenza, non potranno mai essere ridotte se non si riduce il fabbisogno dello stato. È da tener conto poi che la riduzione del carico fiscale incentiva sicuramente l’attività di lavoro autonomo e d’impresa, però è necessario poterlo consentire. Fino ad oggi non è stato possibile perché siamo entrati nel tourbillon di una crisi, forse anche peggiore di quella del 1929, che non ha consentito lo sviluppo. È lo sviluppo che genera nuova e maggiore rendita e questa a sua volta genera maggiore gettito fiscale e possibilità di ridurre le aliquote e la pressione fiscale. Questo è mancato. L’unica soluzione è utilizzare i fondi strutturali, quelli che vengono dall’Unione Europea. Ma le Regioni del Mezzogiorno si sono rivelate anche in queste situazioni come apparati inidonei, incapaci ad esercitare la funzione di erogatrici di fondi. Per questo ancora oggi i fondi strutturali anche quelli della Puglia sono stati utilizzati per una minima parte”. Perché c’è questa difficoltà ad utilizzare i fondi strutturali? “Perché l’apparato funzionale dello Stato, soprattutto quello delle Regioni del Mezzogiorno non funziona. Stiamo per assistere alla chiusura delle Province, commettendo secondo me un atto non del tutto geniale, perché le Province erano enti con un loro apparato ben collaudato in 150 anni di storia italiana. Hanno saputo fare le strade, hanno saputo fare le scuole, hanno saputo affrontare i problemi dell’ambiente come nessun altro. Al contempo non si pensa alla riforma delle Regioni che hanno le due funzioni, legislativa e gestionale, coniugate, creando quel corto circuito che determina la malversazione e la dilatazione della spesa. Quando si fa una domanda in Regione, infatti, molto spesso non si riesce ad avere una risposta senza raccomandarsi a qualcuno. Ciò dimostra come le Regioni siano enti che non hanno valide capacità di funzionamento, in particolare nel Mezzogiorno, dove a causa della necessità di creare sempre occupazione abbiamo caricato di personale questi enti. E la spesa si dilata sempre di più”. Si prevede inoltre finalmente l’aumento dal 12,50% al 20% della tassazione sulle rendite finanziarie. Non crede che in questi anni si sia diffusa una cultura dell’arricchimento facile a discapito di quella derivante dal lavoro? “Quando la tassazione sulle rendite venne portata al 12,50 % ciò venne fatto per una esigenza ben precisa: creare le condizioni per poter capitalizzare il sistema produttivo italiano, sensibilmente appesantito, rispetto ad esempio a quello della Germania, da un indebitamento notevole. Si sperava con la riduzione dell’aliquota su obbligazioni ed azioni di poter finanziare il sistema produttivo, così come si è tentato con le agevolazioni fiscali previste per le imprese che reinvestivano i propri utili. Quella riduzione non rispondeva pertanto alla esigenza di arricchire i ricchi. Noi siamo per una tassazione delle speculazioni. Ma è necessario che la tassazione sia uguale in tutta Europa, per evitare che ad esempio non si comprino i titoli italiani ma si acquistino di contro quelli tedeschi o francesi. Adesso con l’aiuto della Banca Centrale Europea si sta cercando di fissare un regime unico di tassazione delle rendite finanziarie, non di quelle riconducibili ai Bot e agli altri titoli di Stato ma di quelle strettamente legate ad atteggiamenti e fenomeni speculativi. La Tobin Tax, la tassa come si suol dire che toglie ai ricchi per dare ai poveri deve riguardare tutta l’Europa, perché è chiaro che se venisse fatta solo in alcuni paesi piuttosto che in altri vi sarebbero realtà europee caratterizzate da grande circolazione di denaro ed altre da questo punto di vista totalmente immobili. Si verrebbero così a creare notevoli svantaggi. Ecco che occorre quindi una norma che riguardi tutti gli Stati europei per evitare che un investitore fugga da una parte all’altra facendo il bravo”. Che cosa ne pensa della eventuale black list per i commercianti recidivi, totalmente allergici al pagamento delle tasse? “La black list è stata costruita dal nostro governo, da Tremonti. Ritengo che anche questo aspetto debba essere affrontato a livello internazionale. Non è possibile che l’Unione Europea da un lato vieta al nostro Paese di fare le aree franche e poi dall’altro consente all’Irlanda o ad altre località europee di procedere in tal senso. Quindi anche su questo tema una comune azione europea si appalesa come indifferibile ed urgente”. Il centrodestra durante l’esperienza di governo ha contribuito a creare il mostro Equitalia, rafforzandone i margini e gli strumenti di azione. Nato come organismo di lotta all’evasione fiscale, Equitalia si è ben presto rivelata un incubo per i cittadini che, anche per situazione debitorie di piccola entità, si sono visti applicare pignoramenti ed ipoteche. Per non parlare dei danni subiti dagli imprenditori nei rapporti con le banche. Allo stesso tempo avete fatto lo scudo fiscale facendo rientrare i capitali dall’estero attraverso l’applicazione di una risibile tassazione. Il decreto legge in materia fiscale abbozzato dal governo Monti prevedrebbe invece multe fino al 40% per coloro che portano i capitali all’estero. Voi in Parlamento, in sede di conversione del decreto in legge come vi comporterete nel caso in cui questa disposizione venisse confermata? “Il problema della mobilità del capitale a livello internazionale non è un problema che riguarda solo l’Italia. Perché i capitali vanno fuori da un paese? Perché il detentore si trova scomodo a causa dell’elevata ed insostenibile pressione fiscale oppure perché non potendo fare impresa in un determinato Paese tenta di farla altrove. Si spiega così la mobilità dei capitali. Quando si è fatto lo scudo fiscale non è che si è voluto premiare coloro che avevano portato i capitali all’estero ma si è voluto prendere atto che in alcune occasioni lo Stato si è rivelato tirannico e ha messo l’imprenditore nelle condizioni di fuggire dalla propria patria”. Senatore, non credo che un atteggiamento del genere possa essere giustificato… “Certo, non può essere giustificato ma non si può giustificare neanche uno Stato che mette i cittadini nelle condizioni di andare fuori. Quando ad un certo punto il patrio governo decide, anche per interesse proprio, di essere clemente e di far rientrare i capitali che erano stati portati fuori, decide di farlo perché in quel momento c’è una notevole asfissia finanziaria, al punto che di quei capitali si ha bisogno. Questo è accaduto con lo scudo fiscale. E ciò è avvenuto attraverso una percentuale non irrisoria perché è stato fatto un prelievo secco e pertanto non da poco. Quando questa possibilità di far rientrare i capitali venne prorogata dal nostro governo, perché nella prima fase ne rientrarono ben pochi, feci l’esempio dell’uccellino e della gabbia. Se si vuole che l’uccellino ritorni, dopo essere scappato, è necessario tenere aperta la gabbia. Per questo motivo si è tentato di riavere i capitali dall’estero. Per quanto riguarda la fuga di capitali possiamo mettere la sanzione più dura di questo mondo ma si sappia che se non si creano condizioni di agibilità all’interno di qualsiasi paese caratterizzato da asfissia finanziaria c’è il rischio che vadano lontani. Allora è necessario che lo Stato faccia per intero il proprio dovere, che non pensi di perseguitare il cittadino, mettendolo nelle condizioni cui ho accennato fino a poco fa. In riferimento poi alle problematiche inerenti la riscossione è da tenere in conto che fino a pochi anni fa, facendo un viaggio all’interno delle sezioni commerciali dei Tribunali d’Italia, si trovavano situazioni in cui le aziende arrivavano al fallimento soltanto perché erano indebitate nei confronti dello Stato. Ed essendoci la possibilità di pagare quanto più tardi possibile, l’imprenditore in difficoltà pagava le banche e i fornitori e non lo Stato. E lo Stato non riusciva ad incassare. Si spiegavano così le numerose richieste dei pubblici ministeri di pagamenti d’ufficio e il fatto che si mettessero sotto processo per bancarotta gli imprenditori. Conseguenze quindi gravissime. Come quelle che si verificano oggi per effetto delle norme più stringenti che mettono lo Stato nelle condizioni di essere alla pari rispetto ai fornitori e alle banche. Si sono così create le storie di disperazione degli ultimi mesi. C’è stato, in tal senso, un intervento del Parlamento. In commissione finanze ci siamo fortemente interessati della gente che non riesce ad arrivare alla fine del mese stabilendo che fino ad un determinato importo non si possano mettere le ganasce alla macchina. E si è alleggerita sensibilmente la situazione. Ma bisogna tenere in conto che lo Stato creditore è stato messo in posizione paritaria rispetto alle banche e ai fornitori. Era una situazione cui bisognava porre rimedio”. Quindi voi siete contrari all’applicazione di una multa a coloro che portano i capitali fuori dall’Italia? “Noi siamo per la multa però non possiamo chiudere gli occhi. La gente porta i capitali all’estero se non la si mette nelle condizioni di rimanere in Italia. Noi non tifiamo per coloro che portano i capitali all’estero. Tifiamo per uno Stato più efficiente e meno spendaccione”. Per uno Stato che disturbi di meno… “Lo Stato disturba quando di fronte a situazioni di notevole bisogno e disagio diventa tirannico. In quel caso lo Stato merita di essere rimodulato e reso patrio governo e non fisco o erario come spregiativamente si dice”. La rubrica “Palazzi romani” vi dà appuntamento a lunedì 16 aprile

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