LA STORIA DELLA DOMENICA. Fra Punta Méliso e Punta Ristola, fra Ionio e Adriatico, Levante e Ponente. Leuca, più che un posto di mare, un’esperienza dello spirito
Chiedete a un pescatore dove finisce la terra e vi risponderà “a Leuca”. Precisamente fra Punta Méliso e Punta Ristola, fra Ionio e Adriatico, Levante e Ponente. In mezzo c’è la città della luce, il faro, che ignora la geografia e le mappe – quelle che vogliono che lo Ionio e l’Adriatico si separino amaramente a Capo d’Otranto – e da solo, superbo, riesce a rassicurare il panico sacro dell’idea di Finisterrae che permea l’anima dei pescatori. Un’idea materiale eppur sfuggente, osmotica, di passaggio da una materia all’altra, ma che mai regala la sensazione e la certezza di un confine reale, di un orizzonte vero. E’ questo che fa di Leuca un luogo sospeso, impalpabile, il Finisterrae, dove la luce non viene dal cielo, ma riflessa sulla onde di due mari e non mescolabile con ombra alcuna. Solo di notte, quando il faro entra in funzione e le protegge, le ombre tornano a farsi vive, dominando la scena. Su questa idea di Finisterrae la storia ha fatto di Leuca, sin dai tempi remotissimi, un luogo di culto. Ce n’è uno nella grotta Porcinara, su Punta Ristola e uno su Punta Méliso, dove sorge il santuario di Finibus Terrae, ciò che resta di un’area dedicata a Minerva. Il santuario della Madonna di Leuca è ancora oggi meta di pellegrinaggi, un punto storico e simbolico dove, nel 1571, la Santa Alleanza si spartì preda e bottino di guerra dopo la battaglia di Lepanto. Per quanto riguarda invece i salentini, si dice – e si sa, “vox populi, vox dei” – che chi non ci va almeno una volta nella vita a Finisterrae ci dovrà poi andare da morto. Il pellegrinaggio è infatti considerato una sorta di passaporto per accedere al Paradiso. In cielo, s’intende. Perché in terra, di paradisiaco c’è la Leuca delle vacanze, diventata tale quando il Cavaliere Giacomo Arditi di Presicce edificò una prima casetta. Poi l’ingegnere Giuseppe Ruggeri tracciò la via per la marina e attirò qui bagnanti e villeggianti. Cosimo De Giorgi, uomo di scienza e cultura, scriveva allora: “Vi è uno sfoggio lussureggiante di tutti gli stili architettonici, dal moresco al francese, dal toscano al barocco, dal gotico al cinese”. E l’eclettismo era proprio l’ultima moda del tempo, che Leuca ha assorbito e vissuto, da vera signora. Nacque anche in quegli anni il primo alberghetto, la Pensione Pirelli, dove la costanza e l’esperienza di Donna Teodora costruirono gusto e stile della cucina leucana, commistione di suggestioni marine leggendarie, come l’origine abbinata a questa città. Leucasia è infatti il nome di una delle tre sirene narrate da Licofrone in “Alessandra”. Insieme a Partenope e Ligia furono sconfitte da Ulisse e si gettarono nel Tirreno per lasciarsi morire, dando vita poi a tre diverse città. Leucasia era conosciuta per il canto irresistibile e, abbandonata a se stessa, lambì le coste del Capo di Leuca. Vide Méliso, un pastore che suonava il flauto, e se ne innamorò. Il giovane però amava Aristula e quando la sirena sorprese i due amanti scatenò una tempesta così forte da ucciderli. Athena, impietosita, li trasformò nelle due punte che chiudono la baia di Leuca e oggi si chiamano, appunto, Ristola e Méliso, mentre la sirena continuò a vagare fra i flutti, infelice, fra le ombre che, da allora, a Leuca si scorgono soltanto di notte.
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