Giudice scarcerava mafiosi. Confermata sanzione

Colpevole di falso in atto pubblico, è accusato di avere redatto revoche di custodia cautelare in carcere di detenuti per gravi reati

La Corte di Cassazione ha confermato la sanzione disciplinare nei confronti dell’ex presidente del Tribunale del Riesame di Lecce, Vittorio Gaeta (oggi in servizio presso la Corte d’Appello di Bari). Il provvedimento adottato è il più grave dopo quello che comporta della destituzione dal servizio. Il magistrato è stato giudicato colpevole di falso in atto pubblico. La Suprema corte ha dunque respinto l’appello contro la decisione sanzionatoria con il quale il Csm, lo scorso 18 gennaio, lo aveva punito con la perdita di due anni di anzianità di servizio. Il 21 febbraio del 2003 la sezione disciplinare del Csm, accogliendo la richiesta formulata dal procuratore generale presso la Cassazione, aveva disposto in via cautelare la sospensione dalle funzioni di giudice di Gaeta. Al magistrato era accusato di avere, quale presidente del tribunale del Riesame di Lecce nel giugno 2002, redatto più provvedimenti di revoca della custodia cautelare in carcere per soggetti detenuti per gravi reati (elementi ritenuti vicini alla criminalità organizzata e arrestati nell’ambito dell’operazione Arpia della Dda di Lecce), la cui posizione o non era stata esaminata in camera di consiglio da tutti i componenti del riesame, o addirittura era stata definita a maggioranza nel senso del rigetto del ricorso. Tra questi anche Ilde Saponaro (detta Gilda) moglie del boss di Campi Salentina Gianni De Tommasi. Dall’indagine di Palazzo dei Marescialli era emerso, tra le ipotesi per spiegare il comportamento del giudice che, probabilmente, si era comportato così per “affermare il proprio ruolo di presidente del collegio in merito ad un dibattito in camera di consiglio nel quale era rimasto soccombente rispetto alle due colleghe più giovani (Grazia Errede e Francesca Mariano)”. Per la stessa vicenda Vittorio Gaeta è stato condannato in via definitiva in sede penale a un anno e due mesi di reclusione per falso in atti pubblici e alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per la stessa durata, con sospensione condizionale della pena. Nel processo penale non era emersa alcuna spiegazione del comportamento di Gaeta: di sicuro non aveva preso soldi dai clan mafiosi e non aveva ricavato alcun tipo di vantaggio personale. Inoltre, il suo comportamento deontologico prima e dopo questa vicenda era stato ineccepibile, e anche nel processo si era difeso correttamente. Il procedimento disciplinare ha preso l’avvio solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale emessa il 23 settembre 2009. Proprio la mancanza di un ”interesse personale” gli aveva fruttato una condanna lieve a fronte di un fatto ”gravissimo”. Secondo la Cassazione – sentenza 23778 – il verdetto disciplinare deve essere confermato per il grande discredito gettato sulla magistratura e per la violazione del rispetto della collegialità delle decisioni.

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