Tito Schipa e José Carreras interpretano una pagina di Gaetano Donizetti
Si chiamano Asthon e Ravenswood, ma potevano chiamarsi York e Lancaster o, meglio ancora, Capuleti e Montecchi. L’importante è che i rampolli si amino a dispetto dell’odio secolare fra le rispettive famiglie. È lo scespirismo in costume di Walter Scott che si travasa in teatro e, attraverso varie versioni (Ducange, Carafa, Mazzuccato e altri), pone una delle prime pietre dell’opera romantica italiana: “Lucia di Lammermoor”, di Gaetano Donizetti e Salvatore Cammarano. L’amore frustrato porta Lucia alla follia e alla morte. L’amato Edgardo la raggiunge di corsa, facendo harakiri. Finale altamente drammatico, qui adeguatamente reso da un giovane José Carreras. Eppure, fino a quel momento, Donizetti aveva faticato a farsi riconoscere come autore tragico. Quando non era “buffo” lo chiamavano “semiserio”, perché non sapeva rinunciare al personaggio comico di contorno, ma forse anche perché il suo canto era sempre soave (tanto che nella “Lucia” il dramma a volte si poggia più sui recitativi ariosi che sulle arie). Dunque fa bene Tito Schipa a cantare quello stesso finale come un’arietta malinconica di un Nemorino che invece dell’elisir d’amore abbia ingerito un veleno ad azione ritardata e sia ora a metà strada fra cielo e terra.