Noi, l’olocausto e il dilatatore di palpebre di Alex DeLarge

A Dachau c’è una sezione dedicata agli esperimenti su uomini donne e bambini.

C’è una sezione dedicata anche ai malati psichiatrici: persone sane di mente fatte impazzire con la somministrazione di veleni o torture; oppure persone con problemi psichiatrici, sotto poste alla somministrazione di veleni o di torture per vedere come reagiscono.

Ci sono le foto, ci sono gli appunti dei medici torturatori, appunti presi con una scrittura da persona qualunque, metodica, precisa, ci sono gli strumenti con cui eseguivano gli esperimenti.

Ci sono le descrizioni degli esperiementi-torture. Ci sono le foto delle persone prima, durante e dopo l’esperimento.

Io lo confesso non ce l’ho fatta.

Leggevo con gli occhi socchiusi, pronti a chiuderli del tutto. Guardavo di sbieco le foto, pronta a girarmi di scatto.

Guardavo come fanno i bambini quando non vogliono essere visti: mettevo le mani davanti agli occhi, mi posizionavo davanti ad una foto, le aprivo, richiudevo subito le mani sul mio volto.

Come fanno i bambini, provavo a diventare invisibile e a far sparire loro, con tutto il loro carico di dolore e di orrore.

Provavo a cancellare il luogo in cui mi trovavo e a cancellare la Storia, in bilico tra il mio dovere di cittadina e giornalista che vuole conoscere e il dovere di essere felice, a tutti i costi, anche a costo di girarmi dall’altra parte, facendo finta che.

Ad un certo punto ho avuto conati di vomito e sono uscita. Non sono andata fino in fondo, non ho voluto e potuto vedere tutto.

E’ stata una reazione incontrollata, un vero e proprio stress da trauma, e poi ho cercato di darmi un perché.

Perché quel luogo e quegli orrori ci riportano  in profondità, fino alla quintessensa dell’essere umano, e ci interrogano sulla sua ontologia, ci fanno una sola  martellante eterna domanda: chi è l’essere l’umano? Chi è, quando proviamo a definirlo a partire da quello che fa?

Quelle immagini, a Dachau, ci fanno introiettare tutto: chi sono io? Che cosa avrei fatto? Sarei stata capace di sopravvivere, se ebrea? Sarei stata capace di essere una dissidente, se non ebrea? Sarei stata capace di oppormi al regime? Sarei stata dalla parte del bene o del male, degli oppressi o degli oppressori?

Quelle immagini mi hanno causato un trauma, reale: hanno minato la mia fiducia in me stessa per come mi conosco, capace cioè di resistere a ciò che è sbagliato e scegliere il giusto, e hanno minato anche la mia sicurezza nelle relazioni umane, facendo prevalere la mia sensazione di orrore e di essere inerme.

Quando sono uscita, fuori, c’era un bel sole, bei prati verdi. E non ho potuto non pensare che quello era lo stesso sole che illuminava quelle bambine, quei bambini, i loro genitori, i loro nonni, le loro maestre, i loro amici e sono sicura che tutti, al tepore di quel sole, quando hanno passeggiato lì e lì si sono seduti sull’erba, hanno prodotto gli stessi miei ormoni, endorfine, droghe chimiche autoprodotte che hanno fatto creare in loro l’illusione che sarebbe finita bene, che non poteva durare per sempre. L’essere umano si abitua a tutto e non pensa alla morte come ad una delle opzioni possibili. Sprofonda nel male pensando che sia un necessario obolo per conquistarsi il bene.

L’ho fatto anch’io, mi sono seduta sull’erba, in mezzo allo stesso grande campo dove li radunavano e il sole sulla pelle mi ha fatto stare bene e mi sono sentita in colpa. Perché io stavo bene, immeritatamente.

Loro stavano là, quelle foto oscene che esibivano le torture erano come i dilatatori di palpebre messi ad Alex DeLarge, il protagonista di Arancia Meccanica, costretto a non chiudere mai gli occhi davanti alle scene dei più efferati crimini di guerra, come pena ed espiazione di quanto aveva lui stesso fatto.

Ecco, la giornata della memoria, ogni 27 gennaio, è come quel dilatatore di palpebre e noi siamo tutti Alex DeLarge a cui è impedito di coprire il volto con le mani, come fanno i bambini.

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