Il DOSSIER/3 Continuiamo l’analisi delle motivazioni della sentenza del processo “Ambiente svenduto”
Di Daniela Spera
Taranto. ‘I Riva ed i loro sodali hanno posto in essere modalità gestionali illegali’ ignorando i rischi ambientali e sulla sicurezza di cui avevano piena consapevolezza dal 1995, anno in cui veniva realizzata una consulenza (Montgomery Watson) commissionata dai Riva, al momento dell’acquisto dell’Ilva. Una condotta che ha ‘messo così in pericolo concreto la vita e l’integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento, la vita e l’integrità fisica degli abitanti del quartiere Tamburi, la vita e la integrità fisica dei cittadini di Taranto.’ È quanto si legge nel capitolo delle motivazioni intitolato ‘Il disastro’ in cui la Corte chiarisce il concetto di danno, di lesione alla salute (fisica e mentale) e il suo rapporto con l’ambiente naturale o di lavoro.
LA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA
La Corte d’Assise, riferendosi al concetto di danno e al rispetto del diritto alla salute, cita la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, del 24 gennaio 2019 (causa ‘Cordella contro Italia’). Le concede ampio spazio considerandola ‘particolarmente significativa, emblematica, non solo perché riconosce che i danni gravi arrecati all’ambiente possono compromettere il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio o della propria vita privata o famigliare’ si legge ‘ma anche e soprattutto perché stabilisce che gli Stati hanno anzitutto l’obbligo positivo, in particolare nel caso di un’attività pericolosa, di mettere in atto una legislazione adattata alle specificità di tale attività, in particolare a livello di rischio che potrebbe derivarne.’ Un ‘disastro innominato’, un ‘fenomeno persistente, ma impercettibile, di durata pluriennale’. Non, dunque, un evento improvviso e catastrofico di immediata percezione, ma un’agonia silenziosa, con effetti sanitari distribuiti nell’arco di molti anni.
LA STORIA DEL PROCESSO
Nello stesso capitolo, viene ripercorsa la storia del procedimento penale. Il 2008 è l’anno dell’esplosione del caso, il momento iniziale scaturito dal coraggio di gruppi ambientalisti.
È l’Associazione Tarantoviva (oggi inattiva) che nel febbraio 2008 fa analizzare, a proprie spese, il siero di alcuni residenti tarantini. Scopre che la concentrazione di diossine e PCB nel sangue è ben più elevata di altri loro connazionali. E lo scoprono anche i tarantini tramite i media che riportano la notizia. In seguito, viene diffusa, da parte dell’Associazione Peacelink di Taranto, la notizia del ritrovamento di elevate concentrazioni di diossine e PCB diossina-simili in un campione di formaggio di capra acquistato presso un allevatore di ovicaprini. Particolare scalpore suscita, inoltre, la presenza di diossina nel latte materno, accertata da analisi di laboratorio commissionate, a proprie spese, nell’aprile 2008 dall’associazione “Bambini contro l’inquinamento”.
Nel mese di marzo 2008 il Dipartimento di Prevenzione dell’Asl di Taranto e Arpa Puglia disposero le analisi di 3 campioni di latte ovicaprino prelevati presso aziende agricole nei comuni di Monteiasi, Montemesola e Taranto. Per questi campioni di latte e di formaggio (ricotta) furono confermate concentrazioni di PCDD/F (diossine) e PCB oltre i limiti di legge allora in vigore (divenuti oggi più restrittivi). Nel 2008, quindi. i riflettori dell’Autorità Giudiziaria si accendono sulla diossina. E non si tratta della prima azione giudiziaria. Già dal 2000 era noto che l’Ilva emetteva all’interno e all’esterno dello stabilimento grossi quantitativi di polveri minerali e gas (IPA, benzene). E sin dal 22 maggio 2001 gli allora dirigenti Ilva e delle cokerie, avevano omesso tutte le cautele atte ad evitare la dispersione, nei luoghi di lavoro e nelle aree circostanti, di fumi, gas, vapori e polveri di lavorazione. Nessuna azione preventiva era stata attuata. Omissione che avrebbe avuto gravi ripercussioni sulla salute dei lavoratori e dei residenti nelle aree limitrofe. L’Ilva era stata ammonita. L’origine principale delle indagini che poi hanno portato al processo viene individuata proprio nella denuncia sulla diossina e quindi negli accertamenti di Asl sugli allevamenti ovino-caprini.
In realtà, il contributo è stato corale. Anche da parte di lavoratori disposti a rischiare il mobbing o il licenziamento per la diffusione delle notizie circa l’effettiva situazione ambientale dello stabilimento, degli ambientalisti che si sono spesi, ma anche grazie ai dati ‘ricostruiti tecnicamente e scientificamente con metodo al contrario, a ritroso, partendo dagli animali abbattuti e contaminati dalla diossina per risalire alla fonte della contaminazione’. In questo, specifica la Corte, ‘la consulenza tecnica del dott. Stefano Raccanelli è chiarissima nello spiegare l’importanza del monitoraggio delle deposizioni atmosferiche perché il materiale particellare sedimentabile è in grado di trasferire il suo carico di POPs (inquinanti persistenti, ndr) PCDD/F, (diossine, ndr) PCB, e IPA alla vegetazione, all’acqua, agli edifici’. Una modalità di immissione di veleni nell’ambiente tra i principali meccanismi di contaminazione della catena alimentare. L’uomo li assume per ingestione diretta di polveri depositate e degli alimenti contaminati (formaggi, carni e pesce).
IL QUARTIERE TAMBURI COME MINAMATA
‘Il dibattimento ha dimostrato che lo stabilimento Ilva era (forse è ancora, ma il dato non interessa questa Corte) un deposito di esplosivi gestito dai nostri imputati come fochisti, a prescindere dall’apparente rispetto delle autorizzazioni e dei limiti normativi in sede di autocontrollo o anche di controlli esterni. Quindi non è stato il P.M. un solitario Hiroo Onoda, convinto di dover difendere la sua imputazione a tutti i costi e contro l’evidenza dei fatti; sono stati, invece, gli odierni imputati ad aver trasformato Taranto e specialmente il quartiere Tamburi, in una novella Minamata.’
Colpisce il parallelismo tra il rione Tamburi, il più vicino allo stabilimento ex Ilva, e Minamata, cittadina giapponese divenuta tristemente nota a causa della contaminazione da mercurio provocata da un’industria chimica che operò dal 1932 al 1968. Il caso, divenuto film nel 2020, viene ricordato per i numerosi decessi ed eventi di malattie nella popolazione che mangiava pesce. I decessi (inclusi quelli di cani, gatti e maiali) continuarono per più di 30 anni. Nel 2009 l’OMS ha lanciato la convenzione di Minamata per l’eliminazione del mercurio di origine antropica a cui hanno aderito 128 paesi, e che è stata ratificata a partire dal 2013. Nel 2017, il primo bilancio, ha mostrato una situazione ancora molto lontana dal raggiungimento degli obiettivi fissati.
DATI FALSI E MINACCE AI LAVORATORI DISPOSTI A PARLARE
La ‘macchina Ilva’ dell’illegalità si muoveva su ogni fronte. Il sistema di autocontrollo delle emissioni, previsto dalla legge, veniva falsificato, omesso e manipolato. Nei giorni in cui erano previsti i controlli dell’Arpa, l’Ilva manteneva la produzione a basso regime, per contenere i valori delle concentrazioni degli inquinanti prodotti. Le campagne di monitoraggio – come ha spiegato il Dott. Vittorio Esposito dell’Arpa – venivano falsate dalla conduzione dell’impianto nei giorni dei prelievi. Si trattava di accertamenti concordati e non certo a sorpresa. Si legge nelle motivazioni: ‘L’assenza della registrazione di numerosi superamenti dei limiti di legge, infatti, non significa che Ilva non inquinasse; significa invece che Ilva “pilotava” i controlli, che Ilva forniva dati errati o falsi, che Ilva faceva in modo di condizionare gli organi di controllo – già per loro conto privi di mezzi e di risorse -, che Ilva procedeva alla corruzione di consulenti tecnici del P.M., che Ilva demansionava, licenziava, minacciava i lavoratori disposti a “parlare” svelando le effettive condizioni di lavoro e le modalità gestionali degli impianti.’
Per questa ragione, prove particolarmente importanti si rivelano per la Corte sia gli accertamenti degli organi di controllo e di polizia ‘a carattere accidentale’, sia le testimonianze di soggetti che proprio perché avevano deciso di “parlare” hanno subito mobbing all’interno dell’azienda. Come Antonio Misurale, Mimmo Liace, Giuseppe del Pozzo e Pierangelo Del Re.
Antonio Misurale racconta delle “stranezze” a cui ha assistito: ‘una volta che tornava dal campionamento lasciava l’attrezzatura e portava immediatamente i campioni in laboratorio. Prima di andare in laboratorio la relazione veniva trasmessa al Dottor Tommasini (suo capo, ndr) che la vedeva e nel momento in cui verificava un peso eccessivo rispetto al tempo del campionamento interveniva, sia sul tempo che sul peso facendo rientrare il valore in un range a norma. Altre volte il Dottor Tommasini interveniva sul rapportino, e disponeva nuove analisi; se ancora i valori erano troppo alti li abbassava.’
Misurale è un testimone scomodo per l’Ilva la cui linea difensiva punta a delegittimare la sua deposizione. Ma il tentativo di dimostrare la sua inattendibilità fallisce.
‘Antonio Misurale’ –spiega la Corte- ‘ha aperto uno squarcio, infrangendo il clima che può definirsi omertoso in cui l’attività industriale è stata condotta per lungo tempo sotto la gestione dei Riva’. Ha messo in luce la realtà celata all’interno del laboratorio di analisi dello stabilimento e gli escamotage attuati nel sistema degli autocontrolli. Ma non è voce isolata.
Una testimonianza estremamente importante, ad avviso della Corte, è quella di Cosimo Liace, assunto in Ilva sin dal 2002, tecnico di laboratorio di analisi.
Liace si occupava sia di emissioni sia di caratterizzazione del suolo. ‘Prima di iniziare a lavorare – racconta – facevo la curva di calibrazione, mettevo uno standard a concentrazione nota durante la lavorazione e quindi verificavo che stesse leggendo bene.’ Liace realizzava quindi un report di analisi che sottoponeva all’attenzione del dott. Giliberti che, in qualche occasione, gli diceva che bisognava rifarle.
‘Io al dottor Giliberti in tante occasioni ho chiesto spiegazioni: i campioni da dove arrivassero, i limiti, limite massimo, limiti consentiti, e Giliberti mi ha sempre…non mi ha mai risposto fondamentalmente, proprio categorico non mi ha mai risposto. Chiesto la prima volta, chiesto la seconda volta, alla terza volta mi è stato detto: «qua non ti pagano per sapere, ma solo per operare»’.
‘Era una cosa che non riuscivo ad accettare, ecco, professionalmente, altrimenti sarei andato a fare l’operaio comune: “fai questo e basta”. Mi disse: “Abbassa la temperatura o la pressione atmosferica, vedrai che si abbassa”. ” Beh, no” – dissi io – “Ascolta dottò: se lei mi ha detto che io non devo sapere, bene, io non so, ma questo se lo deve fare lei, io non glielo devo fare’. La richiesta di Giliberti era proprio relativa alla modifica di un parametro, allo scopo di abbassare la concentrazione finale. Richiesta legata ai fumi prodotti dalle batterie delle cokerie e dai camini. Di lì a poco Liace venne sostituito da Pierangelo Del Re, operatore del laboratorio di analisi di llva, che si occupava di cromatografia ionica, e che ha reso una deposizione del tutto in linea con quelle di Liace e Misurale.
Anche Giuseppe Del Pozzo, che si è occupato della caratterizzazione dei metalli pesanti, come Annicchiarico Vincenzo e Corciulo Stefano, ha testimoniato nello stesso senso. Tutti a fine giornata consegnavano i risultati al Dottor Giliberti, il quale, se notava che erano andati troppo oltre la curva di taratura, li diluiva maggiormente. Il fattore diluizione non veniva mai esplicitato con la conseguenza che il dato considerato non era vero.
Continua…
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