Nascono i CUAV, Centri per Uomini autori di violenza, per “riabilitare” i maschi violenti

In Puglia ne sono nati sei. Molti Centri Antiviolenza del 1522, anche cattolici, non sono d’accordo. L’intervista a Maria Luisa Toto, presidente del Centro Antiviolenza Renata Fonte di Lecce

di Thomas Pistoia

Gabriella Serrano e Lidia Miljkovic, rispettivamente di 36 e 42 anni, sono morte, ammazzate, il 9 giugno scorso. A toglier loro la vita, un uomo, un maschio, Zlatan Vasiljevic. Lidia era la sua ex-moglie, Gabriella la sua attuale compagna.

Questo femminicidio differisce da altri non solo perché ha causato la morte contemporanea di due donne, ma anche perché, come denuncia Daniele Mondello, nuovo compagno di Lidia Miljkovic, l’assassino, condannato per maltrattamenti, aveva ottenuto la libertà e alcuni altri benefici, in virtù di un percorso riabilitativo (20 incontri da 50 minuti ciascuno), intrapreso presso un centro di recupero per uomini violenti. Ad esempio, aveva ottenuto il diritto di mediare con la ex-moglie le decisioni relative ai figli, circostanza che costringeva quest’ultima in qualche modo a frequentarlo.

I centri di recupero per uomini violenti sono più noti con il loro primo acronimo (CAM). La formula esatta sarebbe “Centri Ascolto uomini Maltrattanti”. Nascono nel 2009 in forma sperimentale, il primo centro sorge a Firenze. Nel giro di poco più di dieci anni si sono lentamente e inesorabilmente diffusi su tutto il territorio nazionale.

Il 24 e il 25 maggio 2022, la Camera e il Senato hanno approvato all’unanimità una risoluzione che prevede l’istituzione e il sostegno di programmi rivolti agli uomini autori di violenza domestica e di genere. La Ministra Bonetti ha annunciato, nell’occasione, un piano nazionale che prevede l’investimento di nove milioni di euro già da quest’anno.

In Puglia, il 13 luglio 2022, l’assessora regionale al Welfare Rosa Barone ha annunciato la nascita della prima rete di centri di ascolto per uomini violenti. Sono sei: a Bari, Foggia, Andria, Taranto, Brindisi, Lecce.

Il 14 settembre scorso l’Intesa Stato-Regioni ha istituito i C.U.A.V. (Centri per Uomini autori o potenziali autori di violenza), che sostituiscono i CAM.

Quindi, al netto dei fatti di cronaca, queste sono, come dicevamo, solo alcune delle normative (con relativi stanziamenti di risorse) che le istituzioni, concordi, hanno promulgato nel tempo sulla materia.

La reazione de centri antiviolenza, al contrario, non è stata di approvazione unanime, in particolare nei riguardi della creazione dei C.U.A.V.

Il 13 settembre 2022 la “Rete Nazionale Antiviolenza a sostegno delle donne vittime di violenza” (ovvero il gruppo di centri antiviolenza che hanno istituito il call center del numero d’emergenza 1522) ha espresso alla Conferenza Stato-Regioni “preoccupazione per l’approvazione di un testo che – presentato in forma non emendabile – non considera le necessarie osservazioni di chi da oltre 30 anni lavora al fianco delle donne per contrastare la violenza maschile”.

Stessa preoccupazione hanno lamentato Fondazione Pangea Onlus, Associazione Nazionale Volontarie Telefono Rosa UDI – Unione Donne in Italia, Reama – Rete per l’Empowerment e l’Auto Mutuo Aiuto, Associazione Nosostras e UIL – Unione Italiana del Lavoro. Tutte hanno espresso molte perplessità, chiedendo la modifica di quelli che ritengono i punti critici del documento: il mancato rispetto di quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul (paradossalmente indicata dai legislatori come base fondante della normativa) in termini di protezione della donna e dei minori rispetto al percorso di autonomia dal maltrattante, lo sbilanciamento tra centri antiviolenza e C.U.A.V. nell’erogazione dei finanziamenti.

Abbiamo chiesto a Maria Luisa Toto, fondatrice e presidente del Centro Antiviolenza Renata Fonte di Lecce, da ormai 25 anni punto di riferimento nel territorio per le donne vittime di abusi, di commentare la situazione attuale.

Come nasce il Centro Renata Fonte?

E’ un centro nato, come la maggior parte dei centri italiani ed europei, dalla volontà di un gruppo di donne professioniste a vario titolo, di promuovere sul territorio la cultura della legalità e della non violenza. Già dal ‘98 il gruppo si è strutturato e ha dato vita al Centro Antiviolenza Renata Fonte. La nostra regola primaria, dalla quale non ci siamo mai discostate, é il patto di alleanza che stringiamo con le donne che ci chiedono aiuto e sostegno.

Gli altri centri non seguono la stessa regola?

C’è una differenza sostanziale tra i centri come il nostro, nati più di due decenni fa dall’associazionismo e quelli che sono sorti più recentemente. Questi ultimi fanno una cosa che non si dovrebbe mai fare: si propongono (e vengono indicati dalle istituzioni) come fornitori di un servizio. I centri antiviolenza non possono essere fornitori di servizi, devono invece essere dei luoghi di relazioni tra donne, con le donne e per le donne. Questa è la peculiarità fondamentale che consente l’adozione di metodologie e strategie basate sulla cultura di genere. Quei centri che si presentano come fornitori di un servizio non potranno mai stringere moralmente un patto di alleanza con le donne che hanno subito la violenza maschile. Quando una donna varca la soglia di un centro, deve essere presa per mano. E’ un prendersi per mano tra donne da cui nasce la forza per intraprendere un percorso di liberazione dalla violenza. I centri antiviolenza non sono fornitori di servizi, ma luoghi di libertà.

Difficilmente una vittima di violenza maschile si rivolge a un servizio, perché lo vive come l’autocertificazione del suo fallimento come donna, come moglie e come madre.

Con questa concezione si rischia di non mettere nelle più le donne nelle condizioni di denunciare, di narrare la loro storia di maltrattamento all’interno della relazione di coppia e tra le mura domestiche, perché non si fidano più e quindi non si affidano.

E c’è una differenza anche nel sistema di formazione delle operatrici: le donne che lavorano all’interno di un centro antiviolenza dovrebbero essere professioniste orientate ad una cultura di genere. Ecco perché l’associazionismo femminile non è un servizio: nasce da un’ideale, da una libera scelta, non proviene da un corso di formazione. Come si possono motivare delle donne che vengono assunte (magari attraverso percorsi clientelari) e diventano impiegate di un fornitore di servizi? Quale metodologia utilizzeranno?

Le operatrici di un centro devono avere la consapevolezza che nessuna donna è immune dalla violenza maschile, quindi la storia della donna che hanno di fronte, che ha varcato la soglia e che chiede l’inizio di un percorso di liberazione, deve diventare la loro storia, la sua liberazione deve diventare la loro liberazione.

La riduzione dei centri in servizi sta praticamente cancellando la storia della antiviolenza.

Qual è la sua opinione sui C.U.A.V.?

L’emersione del fenomeno della violenza contro le donne, che abbiamo ottenuto con tanto sacrificio, in quasi tre decenni, sta subendo una involuzione, perché le donne non denunciano più e hanno paura.

La nascita dei CAM o C.U.A.V oramai legittimata, giorni fa, dallo Stato, tramite l’approvazione del documento sulle loro linee guida, ci ha riportate indietro nel tempo.

Se un uomo prende coscienza e consapevolezza del suo comportamento violento, non c’è bisogno di un C.U.A.V., semplicemente, in piena autonomia, quell’uomo può intraprendere un percorso di recupero, rivolgendosi a un bravo psicologo. Istituzionalizzare questi centri dà un messaggio inquietante: alla fine della fiera la responsabilità del recupero ricade in qualche modo sulla donna. Io non credo nella redenzione dell’uomo violento, perché si tratta di comportamenti appresi e assimilati nel corso dei secoli: io maschio ho potere di vita e di morte sulla donna; io maschio punisco la donna, maltrattandola, violentandola, se non si attiene alle regole di questa concezione del rapporto che ha come base il dominio maschile. Per cambiare questa mentalità e questi comportamenti non è sufficiente un percorso di recupero che dura da sei mesi ad un anno. Come si può credere di poter redimere in così poco tempo un uomo violento che racchiude in sé i retaggi del potere maschile di secoli e secoli di storia dell’umanità? Noi del Centro Antiviolenza Renata Fonte questi retaggi, in quasi 25 anni di attività, li abbiamo toccati con mano nelle aule dei tribunali. Abbiamo udito deposizioni di uomini violenti che giustificavano i loro crimini dicendo di fronte ad un giudice “lei è MIA moglie, lei è la MIA compagna”. Ovvero mostravano di non comprendere la gravità delle proprie azioni, si sentivano giustificati da un senso di possesso e di dominio. E’ impossibile cambiare questa mentalità, questa cultura, con un percorso di recupero.

I centri per il recupero creano un altro grave danno: consentono all’uomo violento, grazie all’attestazione che ottiene da questi “professionisti della redenzione”, di ottenere benefici e sconti di pena. Così il reato di violenza contro le donne, considerato una violazione dei diritti umani, resta sostanzialmente impunito.

Eppure alcuni centri antiviolenza stanno inglobando in sé anche i C.U.A.V. …

Sono i nuovi centri, quelli che si presentano come fornitori di servizi. Io li definisco “ancelle del patriarcato”. Sono tutte quelle donne che hanno avallato la istituzionalizzazione dei centri di recupero, creando un danno senza precedenti. I centri antiviolenza veri sono nati per sconfiggere la cultura del patriarcato, per dire che i generi maschile e femminile hanno gli stessi diritti umani.

Noi del Renata Fonte ci dissociamo completamente da questi centri antiviolenza. Significa che non siederemo mai accanto a loro, che non saremo presenti nei convegni in cui ci sono anche loro. Perché sorge un dubbio: agiscono in nome di un’idea o in nome di quei 9 milioni di euro che sono stati stanziati? L’obiettivo è un lavoro di prevenzione nei confronti della donna o è un business? Personalmente sono indignata, perché, lo ripeto, stanno distruggendo la storia dell’antiviolenza, quella rivoluzione culturale che, con tanta passione e tanto impegno, in Italia, in Europa e nel resto del mondo abbiamo cercato di mettere in atto.

Quindi il Centro Antiviolenza Renata Fonte come reagirà a questa situazione?

Rifiuteremo qualunque contatto tra l’uomo violento e la vittima. Continueremo a utilizzare la nostra metodologia e le nostre strategie di intervento. Non crediamo negli incontri finalizzati a capire a che punto sta il percorso di redenzione. Al contrario, terremo il violento alla maggiore distanza possibile. E qui, attenzione, si crea un enorme paradosso: la donna che si rifiuta di incontrare l’uomo violento potrebbe essere considerata responsabile della sua mancata redenzione. Potrebbe essere accusata di non essere collaborativa, di non voler giungere a una soluzione del conflitto. Quindi se poi accade l’irreparabile, se l’è cercata. Oppure il suo rifiuto, giunto sul tavolo del magistrato, potrebbe condizionare la decisione dello stesso in merito all’affidamento dei figli minori.

Inoltre: i centri antiviolenza come il nostro possono produrre dei dati. Li produce anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità quando dichiara che il fenomeno della violenza contro le donne produce più morti del cancro. I C.U.A.V in base a quali dati possono sostenere il successo di un percorso di recupero? Tenuto anche conto che, nella maggioranza dei casi, l’uomo violento viene spinto a intraprendere il percorso, quindi non ha una reale intenzionalità di redimersi, ha piuttosto l’interesse a ottenere benefici e sconti di pena. Allora quali sono i dati che hanno spinto lo Stato a istituzionalizzare e legittimare i centri di recupero?

Quello che con la normativa legata ai C.U.A.V. si sta cercando di ottenere è la mediazione familiare. Non usano questo termine perché la mediazione è vietatadalla stessa Convenzione di Istanbul.

Sembra un tentativo di fermare l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne, come se una sorta di regia stesse dicendo: “non denunciate, fate le brave, tacete”.

Questa è la vittoria della bigenitorialità ad ogni costo.

Lo Stato, prima di legiferare, avrebbe potuto consultare i centri antiviolenza, farsi forte della vostra esperienza…

Le vittime di questa normativa siamo anche noi, noi che dobbiamo guardare negli occhi e prendere per mano le donne che ci chiedono aiuto. Noi che dobbiamo proteggerle e provvedere alla sicurezza loro e dei loro figli. Le risorse che sono state messe in campo sono state sperperate a sostegno dei maschi violenti. Non c’è stato alcun confronto democratico.

In Italia ci sono altri centri antiviolenza che, come il Renata Fonte, si stanno ribellando a questa situazione. Sono appunto i centri nati dall’associazionismo femminile, i centri che in Italia hanno fatto la storia della antiviolenza, quelli che non hanno aderito a questo business. Con loro ci siamo battuti, abbiamo chiesto che la normativa non venisse approvata, ma non siamo stati ascoltati. Ora stiamo chiedendo che venga modificata.

In questi giorni, stiamo rassicurando le donne che arrivano nei nostri centri e ci esprimono il loro timore: con noi il loro percorso non cambierà di una virgola.

Se i C.U.A.V. non sono la soluzione, cosa possiamo fare per cancellare il retaggio dei maschi violenti?

Dobbiamo agire sulle generazioni future, educando i giovani alla cultura della nonviolenza e della legalità per prevenire il fenomeno della violenza maschile sulle donne. La nostra prevenzione la facciamo nelle scuole di ogni ordine e grado, rivolgendoci a loro.

Abbiamo potuto vedere con i nostri occhi, in questi lunghi anni, che i semi gettati nelle scuole possono germogliare.

Maria Luisa Toto

Maria Luisa Toto

Leggi anche:

Leave a Comment