L’immigrazione albanese degli anni ’90 rivive nel libro di una giornalista salentina
di Thomas Pistoia
Non è ancora cominciata la primavera del 1991. Il giovane Ervin staziona sulle banchine del porto di Brindisi insieme ad altri connazionali. Tutto ciò che possiede lo porta indosso. Gli si avvicinano due coniugi di Terlizzi e gli chiedono se vuole vivere a casa loro almeno finché non avrà trovato una sistemazione migliore. Il giovane accetta e ottiene di portare con sé anche Ron, suo fratello.
Oggi Ervin e Ron Kubati si sono laureati rispettivamente in ingegneria informatica e in filosofia. Si sono affermati professionalmente e vivono uno in Italia, l’altro negli Stati Uniti.
Stiamo parlando dell’immigrazione (qualcuno la chiamò “invasione”) albanese di cui fu teatro il nostro paese, la Puglia e il Salento in particolare, a partire dagli anni ’90. Nell’immaginario collettivo è rimasto impresso lo sbarco della nave Vlora presso il porto di Bari nell’agosto ’91, ma gli arrivi cominciarono mesi prima proprio in quel di Brindisi. All’inizio alla spicciolata, poi in gruppi sempre più numerosi, fino a raggiungere le ventimila unità.
Di fronte a questa emergenza, altre persone, in quel periodo, fecero lo stesso gesto dei coniugi di Terlizzi. Giunsero da diverse zone della Puglia, su invito e spinta di Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, che ospitò lui stesso, in episcopio, una coppia di fidanzati.
Stessa iniziativa prese in quei giorni il sindaco di Brindisi, Giuseppe Marchionna, che, a fronte della totale inoperosità delle istituzioni italiane, lanciò un appello ai suoi concittadini: “Vi prego di non avere paura delle persone che sono sbarcate. Hanno solo fame e freddo. Se potete aiutarli, fatelo, e vedrete che vi saranno riconoscenti.”
Il tentativo di coinvolgere la popolazione funzionò ed evitò il caos. Un esercito di uomini, donne, ragazzi brindisini scese in campo autonomamente, senza attendere il beneplacito dello Stato, in quel momento del tutto assente.
E non ci fu soltanto l’umanità espressa in loco, se è vero che la Caritas diventò testa di ponte, già a partire dal luglio ’91, di numerosi viaggi della solidarietà, al punto da stupire e quasi insospettire la popolazione albanese, come racconta un sacerdote di stanza a Durazzo: “non sapendo che organizzazione fosse la Caritas e venendo noi dall’Italia, hanno subito immaginato che dietro ci fosse la mafia, perché pensavano: non è possibile che ti diano roba gratis senza chiederti nulla […] poi si sono ricreduti.”
Queste sono soltanto alcune delle tante storie contenute nel volume “Albania Italia, andata e ritorno”, scritto dalla giornalista salentina Ilaria Lia e edito da Ed Insieme. Si tratta di un’analisi del fenomeno migratorio di quegli anni effettuata non soltanto dal punto di vista giornalistico, ma anche e soprattutto dal punto di vista storico.

La trattazione, supportata da una massiccia documentazione raccolta in diversi anni di ricerca, parte dalla Seconda Guerra Mondiale (ovvero dall’invasione, quella vera, perpetrata dall’esercito italiano nel 1939), per giungere, appunto, agli anni ’90, proseguendo poi nel racconto fino al termine dell’emergenza.
Il libro non è una fredda cronaca di avvenimenti. L’autrice, con una scrittura scorrevole fondata su quello che potremmo definire un ritmo da romanzo, riesce a rendere avvincente e interessante il racconto, supportandolo anche con interviste ai protagonisti dell’epoca e una ricca documentazione fotografica.
A partire dallo sbarco della Vlora, Lia mette al centro dell’attenzione del lettore il ruolo che ebbe da quel momento la Caritas non solo per l’accoglienza, ma anche per gli aiuti e il supporto che tramite essa giunsero in Albania. Quest’occhio di riguardo non toglie comunque nulla all’interesse del lettore, non vi sono derive catechistiche e l’analisi storica degli eventi prosegue con immutata scrupolosità e capacità di narrazione.
La lettura suggerisce invitabilmente una riflessione: gli italiani, questo enorme flusso migratorio, paradossalmente, lo ricordano appena. Anche perché oggi i migranti di allora, a decenni di distanza, risultano ormai del tutto integrati e spesso nessuno fa più caso alla loro origine straniera.
Lia, l’immigrazione albanese può insegnarci che un’integrazione è sempre possibile e che la solidarietà è l’unica via da percorrere?
Il regime di Enver Hoxha ha minato le personalità degli individui, svuotandoli e privandoli di ogni dignità. Gli albanesi avevano smarrito molti dei loro elementi culturali in cui riconoscersi. Poi, hanno scoperto che c’era un mondo oltre l’Albania. Guardando di nascosto la tv italiana, hanno iniziato a idealizzarci, a imparare la nostra lingua, a nutrire il sogno di diventare come noi. Così quando sono arrivati in Italia hanno fatto di tutto per non sembrare stranieri e lasciarsi alle spalle la durezza delle loro origini. Di loro si può dire che c’è stato il processo di integrazione. Chi arriva adesso sulle nostre coste proviene da paesi lontani, non conosce l’italiano e ha le radici ben forti nella cultura d’appartenenza. In questo caso è necessario un dialogo ancora più intenso nel trovare punti in comune per una civile convivenza. Non si può quindi parlare di integrazione ma di interazione tra culture. Processo che va certamente costruito con buone pratiche e progetti mirati, ma che è possibile. La solidarietà è la capacità di sentire il bisogno dell’altro e di farsene carico, di aiutarlo a superare le difficoltà. E sarebbe bello che scattasse sempre in automatico con tutti coloro che si trovano in un momento difficile, italiani e non. La solidarietà si può dimostrare in diversi modi e l’esempio di Caritas è lampante. Dopo aver inviato in Albania gli aiuti d’emergenza (cibo, vestiario, e tutto ciò che serviva nell’immediato), ha avviato in loco dei progetti di sviluppo specifici (in ambito sanitario, culturale, lavorativo…) per rendere gli albanesi autonomi e indipendenti dagli aiuti esterni, per dare loro gli strumenti per farcela da soli. Ed è quello che si dovrebbe fare in ogni paese in difficoltà, avviare una seria e vera cooperazione allo sviluppo. Fortunatamente ci sono ancora progetti validi che vengono realizzati sia all’estero che in Italia. E sicuramente producono risultati più efficaci rispetto a tante missioni di pace, che spesso lasciano il tempo che trovano.
Perché questo libro?
Credo sia necessario e dovuto per ricordare quello che i pugliesi, gli italiani, sono stati capaci di fare, per ricordare il moto di solidarietà spontaneo e travolgente che ha permesso di rinsaldare i rapporti tra italiani e albanesi.
Ero ancora piccola e non avevo una reale cognizione dell’attualità quando si sono verificati gli sbarchi, e sono cresciuta con il ricordo dei primi albanesi ospitati nel mio paese, con i racconti di chi in Azione Cattolica partecipava ai campi scuola e alle decine di iniziative a favore dell’Albania. Poi tutto è andato scemando, a favore di un racconto sull’immigrazione propagandistico e carico di paura verso l’altro. Senza invece che si avviasse una reale riflessione sul fenomeno. Sono partita da questo per ricostruire una storia di solidarietà, che tuttora fa scuola, che ha coinvolto tutti, dalle famiglie alle associazioni, dalle scuole agli amministratori, e ancora oggi vive nei ricordi di chi c’era. Il libro non è certo un lavoro esaustivo, rimangono ancora da raccontare tante altre storie di solidarietà, ma era necessario iniziare a raccogliere le testimonianze. Andare a ritroso e rendere onore a chi si è impegnato disinteressatamente. E mi piacerebbe che su questo mio inizio si costruisse una storia collettiva in cui ogni italiano si possa riconoscere.
Come abbiamo detto, la storia che racconti è fondata su una ricerca documentale lunga e scrupolosa. Cosa aggiunge di nuovo il tuo lavoro a ciò che già sapevamo su queste vicende?
I dettagli. Non sono pochi e sono quelli a fare la differenza. Nella prima parte ho ricostruito la storia dell’Albania e i rapporti con l’Italia: non tutti, infatti, conoscono le vicende che hanno segnato gli anni passati, l’ascesa e il crollo del regime e gli sforzi per la ripresa e l’aspirazione ad entrare in Europa. Per quanto riguarda il racconto degli aiuti solidali, presenti nella seconda parte, ho riportato alla luce la grande organizzazione della Caritas e della sua rete nazionale e la capacità di intervenire in modo mirato in ogni situazione. Non ci sono molti documenti dell’epoca, alcuni sono andati persi, la ricostruzione mi è stata possibile anche grazie ai racconti dei protagonisti. Uno tra tutti è stato Pier Paolo Ambrosi, purtroppo non più tra noi, il primo delegato Caritas inviato in Albania. Mi ha ceduto i suoi appunti e i suoi ricordi di quel periodo, il lavoro duro ed impegnativo dei primi anni e mi ha raccontato alcuni dettagli storici, informazioni che solo lui avrebbe potuto dare, perché testimone diretto.
Quali differenze ci sono, secondo te, tra l’immigrazione albanese e quelle odierne?
Nel 1979 il governo italiano ha inviato delle navi della Marina Militare nelle acque del Pacifico per recuperare i cosiddetti “Boat People”, i vietnamiti che scappavano su delle zattere dalla guerra e dalla fame. I profughi sono stati accolti in Italia e dislocati nelle varie città anche grazie alla Caritas italiana. Nessuno in parlamento si è opposto: per l’occidente era un vanto poter soccorrere chi scappava dai regimi comunisti. Anche gli albanesi protagonisti dell’assalto alle ambasciate sono stati accolti senza grandi problemi. Con la caduta del muro e con il crollo del comunismo la percezione dei profughi cambia e inizia ad essere un tema scottante, tanto poi da generare una dialettica e una propaganda sempre più dura contro chi lascia il proprio paese. Evocando sempre lo spettro dell’invasione. E’ la percezione che si ha o si vuole creare dell’immigrazione che cambia con il tempo e che è alla base delle politiche intraprese per gestirla.
Si emigra per povertà, per farsi una vita migliore (e anche noi italiani continuiamo a farlo), per scappare dalle guerre e dalle persecuzioni e adesso per i cambiamenti climatici. Da sempre l’uomo ha un buon motivo per migrare, a volte non ha scelta. L’immigrazione albanese avrebbe dovuto farci riflettere e avviare una discussione seria sull’immigrazione e su come approcciarsi in modo corretto. A migrare sono sempre persone, prima che esponenti di diverse culture, come direbbe l’antropologo Marco Aime e come disse anche il sindaco di Bari Enrico Dalfino davanti alla Vlora, rimediando un’offesa dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. La migrazione è un fenomeno complesso e non si fermerà mai, per questo è necessario avviare una riflessione seria per trovare nuove strategie, senza liquidarla con un’unica strategia d’intervento. Bisognerebbe interrogarsi sull’efficacia delle attuali forme di accoglienza e pensare un po’ di più a dei veri interventi di emergenza e sviluppo, come suggerisce Francesco Carloni in chiusura, nella prefazione.

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