47° Festival della Valle d’Itria. Griselda e Angelica, generazioni a confronto.

di Fernando Greco

(Foto di Clarissa Lapolla)

Al Festival della Valle d’Itria nulla avviene per caso: ogni anno il Cartellone riflette precise e motivate scelte artistiche, quei fils rouges più o meno espliciti che riempiono il cuore dello spettatore arricchendone l’intelletto e continuano a garantire il successo della rassegna martinese, insieme con la qualità degli allestimenti. Merito ascrivibile in primis al maestro Alberto Triola, da dodici anni direttore artistico del Festival dopo i compianti Rodolfo Celletti e Sergio Segalini.

I MOTIVI DI UNA SCELTA.

Perchè “Griselda” e “Angelica”? Nello sterminato repertorio barocco di scuola napoletana, si tratta di due opere coeve, rappresentate rispettivamente nel 1721 e nel 1720. Ma mentre la “Griselda” di Alessandro Scarlatti (1660 – 1725) rappresenta il testamento di un compositore giunto al termine della propria parabola umana e artistica, “L’Angelica” di Nicola Porpora (1686 – 1768) ha la lieve eleganza di un fiore appena sbocciato, nato dalla collaborazione tra un compositore trentaquattrenne già famoso e un poeta all’esordio, quel Metastasio che tanto peso avrebbe avuto nel teatro musicale del Settecento. I due titoli mettono dunque a confronto due generazioni in maniera trasversale, evidenziando il sempiterno contrasto tra vecchi e giovani. D’altronde l’anziano Scarlatti non tradì mai quello stile contrappuntistico che gli aveva garantito il successo, ma che negli anni ‘20 suonava decisamente demodé alle orecchie dei musicisti di nuova generazione, quali Porpora o Sarro, più inclini a sperimentare la novità di un canto accompagnato che valorizzasse in prima istanza il virtuosismo vocale degli interpreti. Stava nascendo la moda dei “rosignuoli”, quel canto di coloratura basato sull’abbellimento, come spiegato da Lorenzo Mattei nel bel programma di sala.

GRISELDA: MUSICA SUBLIME.

A trecento anni dalla sua creazione, la “Griselda” ascoltata al Festival ha colpito il cuore dell’ascoltatore: signori miei, questa è musica sublime che esprime la poetica degli affetti in maniera tanto più espressiva e coinvolgente quanto più asciutta, in primis nella vocalità della protagonista. E partiamo proprio da lei, Carmela Remigio, un soprano che, negli anni, ha dimostrato di saper affrontare gli autori più disparati con la stessa scrupolosa preparazione e la stessa incisività, passando con disinvoltura da Donizetti a Strauss, di cui ha affrontato con successo l’ “Ariadne auf Naxos” che ha inaugurato la precedente edizione del Festival. Fin dall’entrata in scena, la sua Griselda esprime l’integrità morale e la fierezza della sposa ingiustamente maltrattata, ma anche il suo intimo dolore, complice una perfetta adesione al dettato scarlattiano che le permette di contenere la sua vocalità nei limiti di uno stile vigoroso quanto essenziale, come dimostrato dal commosso e dolente incipit di “Mi rivedi, o selva ombrosa”. Al fianco della protagonista Raffaele Pe, ovvero uno dei controtenori più in vista della sua generazione, anche stavolta ha sfoderato doti di insolito lirismo e grande espressività nel ruolo di Gualtiero. Timbro di velluto per il contralto Francesca Ascioti, cantante sempre più avvezza al repertorio barocco, qui nei panni del cattivo per amore Ottone. Deliziosa la coppia dei giovani amanti Costanza e Roberto interpretati dal soprano Mariam Battistelli e dal mezzosoprano Miriam Albano. Sorprendente per volume, bel timbro e aplomb scenico il tenore Krystian Adam nei panni di Corrado.

L’orchestra La lira di Orfeo, diretta per l’occasione da George Petrou, ha saputo dare il giusto risalto ai vari colori ottenuti dagli strumenti d’epoca, seguendo sapientemente la linea di canto. Puntuali gli interventi del Coro Ghislieri, altro ensemble di specialisti in ambito barocco.

ABNEGAZIONE E INSICUREZZA

L’intelligente allestimento ideato da Rosetta Cucchi, con scene di Tiziano Santi e costumi di Claudia Pernigotti, ambienta la vicenda nella Sicilia “bigotta e crudele del primo Novecento” (secondo le intenzioni della regista, a cui andrebbe aggiunto l’attributo “maschilista”), dove un sovrano è ossessionato dal pensiero di dover compiacere un entourage rappresentato dai picciotti che lo circondano, con tanto di coppula in testa, e che, alle sue spalle, magari anche dentro i confessionali presenti in palcoscenico, tramano contro la sua consorte poichè è di origini contadine. Perenne la presenza di un austero sacerdote. Da ciò l’insicurezza di lui e l’instabilità del suo potere, rappresentata dalla sabbia su cui tutto ondeggia e tutto può cadere. Dall’altra parte c’è l’abnegazione di lei che, nonostante l’apparenza di donna debole, riesce ad averla vinta grazie alla forza del suo amore e della sua integrità morale. Secondo le parole della stessa regista, “Abnegazione e insicurezza: da una parte questa donna, che nella storia sembra la parte debole, dall’altra suo marito Gualtiero, che invece passa per il personaggio forte, quando le sue azioni sono mosse da una totale insicurezza e fragilità… Al contrario Griselda ha un filo conduttore che la tiene sempre in piedi e che le dà la forza per andare avanti”.

Il senso di smarrimento è amplificato dalle sculture in plexiglas eseguite da Davide Dall’Osso, in un surrealismo che ammicca un po’ a Mitoraj un po’ a Magritte: di fatto si tratta di “donne che sembrano camminare controvento – come spiegato dalla stessa Cucchi – rappresentazione di tutte le difficoltà contro cui sono costrette a combattere ogni giorno”. La protagonista è circondata da alcune ancelle con il volto coperto da un panno bianco, ancora una volta simbolo delle difficoltà contro cui le donne devono lottare per affermarsi e riuscire a liberarsi dei panni che le avvolgono. A questo proposito, la regista ha fatto riferimento alla “terrificante pratica del panno freddo, pratica usuale nella Sicilia di un secolo fa: serviva per liberarsi delle neonate femmine, che venivano avvolte in un panno bagnato di acqua gelida finchè non morivano. Questo perchè le figlie portavano grosse spese che molte famiglie non potevano o non volevano sostenere”.

LA FEMMINEA ARTE DELLA SEDUZIONE

Al tono accorato della “Griselda” ha fatto da contraltare l’atmosfera più brillante de “L’Angelica” di Porpora, il cui intento celebrativo si concretizza in una vicenda di schermaglie amorose che quasi quasi, grazie all’ammiccante libretto metastasiano, anticipano gli scambi di coppia che l’accoppiata Mozart – Da Ponte avrebbe immortalato settant’anni dopo nel “Così fan tutte”. Angelica è una donna senza scrupoli che, in procinto di abbandonare il tradito Orlando per fuggire con l’amato Medoro, cerca di insegnare all’ingenua Licori le astuzie cittadine, la femminea arte della seduzione con cui irretire lo stesso Orlando dal quale la pastorella è rimasta affascinata. Ciò scatenerà la gelosia di Tirsi, pastorello innamorato di Licori, mentre Orlando, quando capirà di essere stato abbandonato da Angelica, si lascerà andare alla pazzia. Geniale la contrapposizione testuale tra le due donne, da una parte la scaltra e navigata Angelica (“Semplicetta Licori, ami, e l’arte d’amar sì poco intendi?”) dall’altra l’inesperta e rustica Licori (“Così dunque s’impara nelle cittàdi ad ingannar gli amanti?”), con singolare cura per i recitativi, efficaci nel delineare la psicologia dei personaggi. La pazzia di Orlando conclude l’opera, con un formidabile recitativo accompagnato che sembra preannunciare la riforma gluckiana, complice il nitore del tessuto strumentale evidenziato dall’orchestra La lira di Orfeo, diretta per l’occasione da Federico Maria Sardelli, protagonistaassoluto del repertorio barocco degli ultimi quarant’anni, a cui il Festival ha assegnato quest’anno il premio “Bacco dei Borboni”. Inspiegabile il taglio della reale conclusione della partitura, quella “licenza” encomiastica dedicata all’imperatrice Elisabetta Cristina, che avrebbe garantito il lieto fine e chiuso il cerchio di questa festa teatrale.

IL PRIMO RUOLO DI FARINELLI

Ottimo il cast dei cantanti, particolarmente attento alla caratterizzazione psicologica dei singoli personaggi. Orlando ha il piglio passionale e il timbro brunito di Teresa Iervolino, contralto di vocalità corposa e sempre impeccabile nelle agilità, di ritorno al Festival dopo il “Rinaldo” del 2018. Il soprano Ekaterina Bakanova ha vestito i panni di Angelica con fascinoso phisique du role e una voce di colore incantevole e spavaldo virtuosismo. Autentica sorpresa della serata, il soprano Barbara Massaro ha interpretato il ruolo di Tirsi trasmettendo intatta la tenerezza del pastorello innamorato, credibilissima per freschezza vocale e immedesimazione scenica in quello che fu il primo ruolo del quindicenne Farinelli. Dopo essersi fatta apprezzare online durante il lockdown 2020 come protagonista de “Le nozze in villa” in seno al Donizetti Festival, il mezzosoprano Gaia Petrone ha interpretato il ruolo di Licori con perizia vocale e grande espressività nell’evidenziare le ansie della spaurita e ingenua pastorella. L’assidua frequentazione del repertorio barocco ha permesso al soprano Paola Valentina Molinari di indossare i panni dell’innamorato Medoro con pregevoli qualità vocali e portamento scenico elegante. L’anziano e moraleggiante Titiro, personaggio dalle sentenze lapidarie, si è giovato dell’autorevole vocalità del baritono Sergio Foresti.

DRAG QUEENS D’ALTO BORGO

L’allestimento scenico, coprodotto con lo Staatstheater di Mainz, è stato ideato da Gianluca Falaschi, già costumista di fama internazionale, qui al suo debutto assoluto nella regia. Intorno a una tavola imbandita e festonata a fiori, quasi a ricordo delle feste teatrali barocche, i personaggi si muovono e vivono le loro schermaglie amorose in eleganti abiti di stile contemporaneo che spesso lasciano il posto a parrucche, mutandoni e bustini. Intorno a loro, i figuranti dell’ensemble Fattoria Vittadini, guidati dal coreografo Mattia Agatiello e abbigliati in maniera decisamente drag queen, rendono il tutto molto simile a un ricevimento d’alto borgo un po’ pruriginoso, quasi una caricatura delle atmosfere di “Eyes wide shut”. L’ambiente si tinge di splatter durante la scena finale, quando, insieme alle torte di fine pasto, viene portato in tavola un cuore sanguinante.

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