Diario Africano/6

di Marilù Mastrogiovanni

Sta per iniziare la cerimonia di premiazione del World press freedom prize “Guillermo Cano” di Unesco. Premieremo Maria Ressa, giornalista investigativa originaria delle Filippine e pronuncerò il mio discorso che contiene un appello, affinché Unesco muova i governi del mondo sulla drammatica situazione vissuta dalle donne giornaliste, ad ogni latitudine, sulla violenza di genere, anche on line, che devono affrontare a causa del loro lavoro. Perché ogni minaccia alle donne giornaliste è una minaccia alla Democrazia.

In Namibia nella stessa giornata, nella stessa città, nell’arco di 24 ore, come nella migliore tradizione del teatro aristotelico, capita di vedere donne appartenenti a dimensioni spazio-temporali lontane galassie. Le vedete in questo piccolo reportage (ne sto realizzando uno ampio, sulle donne namibiane, di cui questo è un’anticipazione): la neo diplomata 18enne appartenente all’alta borghesia, con i suoi tacchi a spillo di vernice rossa festeggia il diploma in foggia occidentale con i familiari e gli amici, in un ricevimento sontuoso con tanto di weeding planner; le donne della tribù Himba, che vivono in villaggi, in capanne fatte di fango e paglia cotte dal sole, vivono secondo tradizioni ferme al 1700 e si recano nella capitale per vendere la loro chincaglieria, riposando per terra, lì dove le ho incontrare, a bordo strada, oppure andando a dormire nella baraccopoli di metallo, con altre 200mila persone. Ma il numero preciso non è noto. Quando finiscono la merce, tornano nei villaggi nel nord della Namibia.

Nell’inferno di metallo di Katutura invece, ho incontrato tanti bambini, ragazzini, giovani donne, dimenticati dal governo centrale, in un ammasso di polvere, lamiere, urina e feci umane e animali, tutto alla luce del sole. Mentre con Gwen Lister, eroina della libertà d’informazione nel mondo e con Zoe Titus, direttrice del Namibia Media Trust, prepariamo gli ultimi dettagli della cerimonia e del mio intervento, è a quella bimba che penso, quella bimba che corre tra le baracche di lamiere. L’ho volutamente fotografata da lontano, da sola, nella polvere. E’ una delle tante bimbe che chiedono che una penna parli di loro e spinga i potenti della terra a vederle, a guardarle, almeno una volta.

Non è forse questo il senso del nostro lavoro?

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