DOSSIER. Il magistrato Giuseppe De Benedictis è accusato di corruzione in atti giudiziari con aggravante mafiosa per aver ricevuto denaro allo scopo di concedere i domiciliari ai clienti del penalista Giancarlo Chiariello, tra i quali c’erano indagati per mafia. Intercettazioni audio e video nella stanza del tribunale, somme da 4mila a 30mila euro. Il denaro nelle prese elettriche dell’abitazione. Accuse già mosse nel 2012 dal collaboratore di giustizia Matteo Tulimiero e riferite a febbraio 2020 da Domenico Milella. Il magistrato ha ammesso gli addebiti. Il difensore: “E’ uscito da un tunnel dopo la morte della moglie”. Chiesta l’attenuazione della misura
di Stefania De Cristofaro
BARI – “Ho speso 30mila euro e mi sono comprato il giudice a Bari”. Giustizia corrotta, quella contestata dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce dopo aver intercettato in video e in audio il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, Giuseppe De Benedictis, già nominato da due collaboratori di giustizia, la prima volta nel 2012 e la seconda nel 2020.
ACCUSA DI CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI CON AGGRAVANTE MAFIOSA
Corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante mafiosa, riconosciuta dal gip di Lecce Giulia Proto che ha ordinato l’arresto dell’ex collega De Benedictis con l’accusa di aver ricevuto denaro per concedere i domiciliari ai clienti del penalista Giancarlo Chiariello, tra i quali c’erano indagati per mafia, operanti nel Barese e collegati al clan Palermiti/Parisi, al gruppo Capriati e alla Società Foggiana. Da quattromila a 30mila euro, stando a quanto riferisce a un familiare uno degli indagati scarcerati, non sapendo di essere ascoltato nella sua abitazione.
De Benedictis, dimessosi il 9 aprile scorso, è finito in carcere il 24 aprile al pari dell’avvocato del foro di Bari. In cella, nel penitenziario di Lecce, ha confessato. Un mea culpa lungo e articolato nel quale la vicenda giudiziaria si è intrecciata con quella di natura professionale personale.
NELL’INCHIESTA DELLA DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA DI LECCE CI SONO 12 INDAGATI
Oltre al giudice e all’avvocato, nell’inchiesta sono indagate dieci persone, a vario titolo. In elenco figurano: Alberto Chiarello, figlio del penalista al quale viene contestato il ruolo di emissario; Marianna Casadibari, collaboratrice dello studio legale; Nicola Soriano, appuntato dei carabinieri in servizio presso la sezione di polizia giudiziaria della procura di Bari, accusato di rivelazione di segreti d’ufficio; Roberto Dello Russo, detto Il Malandrino, considerato al vertice dell’omonimo gruppo mafioso attivo a Bitonto, come propaggine del clan Capriati di Bari; Antonio Ippedico, accusato di aver organizzato un sodalizio mafioso, costituente articolazione della batteria Sinesi-Francavilla in seno alla Società Foggiana; Pio Michele Gianquitto ritenuto partecipate della Società Foggiana e della batteria Sinesi-Francavilla; Paolo D’ambrosio, avvocato penalista; Matteo Della Malva, indagato per mafia nell’inchiesta condotta in Capitanata sul gruppo derivante dallo smembramento dal clan Notarangelo egemone a Vieste e traffico di droga, Valeria Gala, compagna di Della Malva e Danilo Pietro Della Malva, alias Meticcio, accusato di essere promotore di un’organizzazione finalizzata al traffico di droga operante con metodo mafioso in provincia di Foggia.
L’INTERCETTAZIONE SUL PAGAMENTO DI 30MILA EURO PER LA SCARCERAZIONE
E’ quest’ultimo a confessare il pagamento di 30mila euro per ottenere la scarcerazione dopo tre mesi. E lo fa mentre parla con un familiare nella veranda della sua abitazione, mai immaginando che lì ci fossero le cimici nascoste dai militari.
L’intercettazione, come è riportato nell’ordinanza di custodia cautelare, è del 16 giugno 2020, ore 23,10. Per l’accusa è quella che “chiude il cerchio”. Il gip scrive: “Pietro Danilo Della Malva, sentendosi tranquillo commentava senza alcuna cripticità il mercimonio della sua scarcerazione”. Prima si “vantava di essere uscito dal carcere dopo appena tre mesi e alla reazione ironica” della donna con cui stava parlando “che, ridendo, esordiva con un commento ‘grazie’ come a voler dire sappiamo bene il perché, Della Malva proferiva testuali parole
”però, però, aspetta, ho speso 30mila euro e mi sono comprato il giudice a Bari”
LA PAURA PER LA COLLABORAZIONE DI DOMENICO MILELLA
Lo stesso Della Malva, stando a quanto raccontano gli atti dell’inchiesta, aveva anche paura del “pentimento di Domenico Milella”: il macello sta combinando, dice sempre intercettato.Milella, secondo il gip, è stato “molto preciso sui suggerimenti forniti al sodale, usati in maniera pedissequa”. Il suggerimento faceva riferimento alla nomina dell’avvocato Chiarello in qualità di difensore. Cosa che avviene il 24 gennaio dello scorso anno. Chiarello presenta istanza di sostituzione della misura della custodia in carcere l’11 marzo. “Ciò che mancava – sostiene il gip – era solo il quantum: lo apprendiamo dalla viva voce di Danilo Della Malva”.
L’indagato – dice sempre il gip – “non ha motivo di millantare con la donna che conosce bene le modalità illegali di quella scarcerazione”. E ancora: “D’altra parte, pagare il giudice è l’unico modo che ha Della Malva per ottenere il provvedimento favorevole”. Questo perché ha “subito periodo di detenzione, ha avuto la misura di prevenzione della sorveglianza speciale che ha pure violato ed è stato ristretto in carcere a seguito di esecuzione di mandato di arresto europeo, in quanto si trovava in Spagna da dove gestiva il traffico di stupefacenti e per non farsi mancare niente, così come emerge dal casellario, annovera già tre condanne per evasione tutte nel quinquennio e quindi ostative alla concessione del beneficio”.
L’ARSENALE DA GUERRA OGGETTO DI INDAGINI: DA KALASHNIKOV A PISTOLE
Lo stesso Della Malva, inoltre, è “gravemente indiziato di una serie di reati gravissimi in concorso con altri, con i quali deteneva illecitamente un vero e proprio arsenale: un fucile mitragliatore Spas, un calibro 12, 6 Kalashnikov, una pistola mitragliatrice Pleter 91, calibro 9 parabellum, una pistola mitragliatrice Zagi M91, due pistole mitragliatrici Skorpion calibro 7,65, 6 revolver 357 magnum, 15 pistole nonché svariato munizionamento, caricatori e protezioni balistiche”.
La conclusione, tanto per la Dda quanto per il gip non può che essere una: “E’ evidente che la corruzione di De Benedictis, ossia l’accordo e la dazione del denaro,non può che essere avvenuta per il tramite dell’amico del giudice, l’avvocato Chiarello appositamente nominato”.
LA PERQUISIZIONE DEL 9 APRILE E LA CONSEGNA DEL DENARO CONTANTE
Questa “chiave di lettura pacifica” trova riscontro nei fatti avvenuti il 9 aprile 2021, quando i carabinieri del Nucleo investigativo di Bari eseguono una perquisizione, dopo un incontro tra l’avvocato Chiarello e il giudice, conseguente alla scarcerazione del detenuto Ippedico.
In questa occasione, il giudice consegna spontaneamente una mazzetta di banconote, custodite in una busta da lettera che aveva in tasca, per un totale di 5.500 euro. Poco dopo, il giudice firma la lettera di dimissioni.
Il canovaccio operativo, quindi, si replica ed è la base sui cui viene imbastito l’impianto accusatorio descritto nell’ordinanza di custodia cautelare: il gip Giuseppe De Benedictis e l’avvocato Giancarlo Chiariello hanno da tempo stretto un accordo corruttivo in base al quale in cambio di somme di denaro in contante, consegnate presso l’abitazione e lo studio del legale, o anche all’ingresso di un bar sito nelle vicinanze del nuovo Palazzo di Giustizia di Bari, il magistrato emetteva provvedimenti de libertate favorevoli agli assistiti di Chiariello.
LE PERQUISIZIONI: DENARO TROVATO NELLE PRESE ELETTRICHE DELL’ABITAZIONE
A casa del magistrato è stato trovato altro denaro, nascosto in alcune prese per derivazioni elettriche: sono state sequestrate numerose mazzette per importi variabili tra 2mila e 16mila euro per un totale di circa 60mila euro. Somma da imputare all’attività corruttiva.
Un milione e 200mila euro sono stati trovati in zaini nascosti in un divano e in un armadio a casa del figlio dell’avvocato Chiariello. Somma sulla quale sono ancora in corso verifiche per accertarne la provenienza.
Sono stati raccolti elementi tali da contestare anche i reati di rivelazione di segreti d’ufficio per avere acquisito e divulgato, illecitamente, notizie custodite in banche dati riservate e relative a dichiarazioni di collaboratori di giustizia ancora segrete. Sono stati due collaboratori di giustizia a fare per primi il nome del giudice, riferendo di provvedimenti di scarcerazione firmati da Benedictis.
LE DICHIARAZIONI SUL GIUDICE RESE DA DUE COLLABORATORI DI GIUSTIZIA
“Le accuse – si legge nel provvedimento di arresto – erano in embrione già dall’anno 2012, sulla scorta delle dichiarazioni rese da Matteo Tulimiero che tuttavia rimasero all’epoca, prive di riscontri”. A Febbraio 2020, il nome del giudice viene fatto da Domenico Milella. E il successivo mese di marzo parte la segnalazione dei pubblici ministeri di Bari che hanno portato all’avvio delle indagini, trasmesse per competenza funzionale alla procura di Lecce.
“È opinione di questa Procura della Repubblica che la collettività, sia pure nel comprensibile disagio e disorientamento determinato dalla vicenda, possa trovare motivo di sollievo nella circostanza che proprio l’Istituzione Giudiziaria possieda gli anticorpi necessari per colpire i comportamenti devianti, e abbia, ancora una volta nella nostra regione, dimostrato di saper guardare al proprio interno e individuare le più gravi criticità”, ha sottolineato la Dda.
“E’ oggi più che mai necessario che, insieme all’Avvocatura, tutti gli Uffici Giudiziari proseguano nel proprio impegno volto ad assicurare un servizio efficiente e trasparente per la collettività”. Tre giorni più tardi, c’è stato il blitz antimafia con 99 arresti firmati dallo stesso ufficio del gip del Tribunale di Bari. La risposta, quindi, è stata immediata.
L’INTERROGATORIO DI GARANZIA DEL GIUDICE E IL TUNNEL
Così come è stato rapido il pentimento del giudice, peraltro già emerso in fase di perquisizione. “Si è mostrato molto sofferente nel corso dell’interrogatorio di garanzia: ha ammesso gli addebiti spiegando di essere uscito da un tunnel che durava da un anno e si è detto disponibile per qualsiasi chiarimento”, dice il difensore Giancarlo Schirone.
“L’interrogatorio, al quale ha preso parte anche il pm, si è protratto per quasi due o mezza Il giudice si è pentito e si è messo a nudo, vergognandosi per quello che ha fatto”, prosegue il penalista.
“Ha avuto modo di spiegare – aggiunge il difensore – lo spaccato della sua vita, sia professionale che privata, riferendo avvenimenti che lo hanno segnato molto, lasciandolo privo di punti di riferimento. Da un lato, l’inchiesta penale degli scorsi anni per detenzione di un’arma da guerra, accusa dalla quale è stato assolto in via definitiva dopo la Cassazione, ma c’è stato comunque un procedimento disciplinare con trasferimento a Matera, e dall’altro la perdita della moglie, magistrato anche lei, avvenuta nel 2016”, riferisce il difensore.
“Per 32 anni, De Benedictis ha fatto il magistrato con manifestazione di preparazione che non ha eguali, sino a quando, come lui stesso ha dichiarato, è entrato in un tunnel di cui ha preso consapevolezza il 9 aprile scorso, tanto da presentare le dimissioni”.
Il difensore, all’esito dell’interrogatorio di garanzia, ha depositato istanza per l’attenuazione della misura: “Abbiamo chiesto i domiciliari, tenuto conto del fatto che De Benedictis non è più magistrato, essendosi dimesso, per cui non sussistono né il pericolo di reiterazione del reato, né quello di inquinamento delle prove”, spiega l’avvocato Schirone. “Né va sottovalutato l’atteggiamento collaborativo”, conclude il difensore.
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