Melissano, holding criminale e muro di omertà dopo l’omicidio: “Non faccio l’infamone”

Raffica di telefonate e incontri, tutti intercettati, in seguito all’uccisione di Manuele Cesari, 37 anni: “Nessuno dei presenti al momento dell’agguato forniva elementi utili, anzi dava notizie false smentite dalla visione delle telecamere”. Ha pagato con la vita la volontà di imporsi nel mercato della droga: “Voleva succedere ad Augustino Potenza, assassinato nel 2016”

Di Stefania De Cristofaro

MELISSANO (LECCE) – Ucciso due volte. Da chi gli ha sparato quattro colpi di pistola mentre stava mangiando un panino e da chi, quella stessa sera e nei giorni successivi, ha scelto il silenzio innalzando il muro dell’omertà rimasto in piedi nonostante tutti sapessero. In paese, a Melissano, la verità sull’omicidio di Manuele Cesari, 37 anni, la conoscevano in molti, ma hanno taciuto: nessuno voleva fare “l’infamone”. Non hanno visto, non hanno sentito e ai carabinieri, i pochi che hanno aperto bocca lo hanno fatto solo per fornire notizie non corrispondenti alla realtà, essendo smentite dalle immagini registrate dalle telecamere.

L’OMERTA’ COME REGOLA DI VITA: TESTIMONI SMENTITI DALLE TELECAMERE

L’omertà come regola di vita. Comune denominatore degli indagati arrestati a diverso titolo, nell’inchiesta chiamata “2.0” sull’esistenza di un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga a Melissano e in altri comuni del basso Salento, coordinata dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Lecce (per competenza funzionale).

Tutti i presenti al momento dell’agguato ai danni di Cesari venivano escussi nell’immediatezza dalla polizia giudiziaria operante e, successivamente, nuovamente alla presenza anche dei magistrati inquirenti”, si legge nel provvedimento di custodia cautelare, firmato dal gip del tribunale salentino Sergio Tosi ed eseguito ieri 21 ottobre 2020 dai carabinieri.

“Nessuno di essi forniva elementi utili, anzi a più riprese venivano date notizie non corrispondenti al vero e ciò con particolare riferimento alla presenza di Gianni Vantaggiato sul posto, da tutti negata eppure inconfutabilmente accertata attraverso la visione delle telecamere sul luogo”.

Scrive il gip. “Circostanza che lasciava presupporre un ruolo di una certa rilevanza ovvero un certo spessore criminale dal medesimo posseduto, tanto da indurre gli accoliti o comunque le persone a lui vicine a tacere. Medesimo atteggiamento ostruzionistico o comunque non collaborativo si riscontrava in merito alla dinamica degli eventi, a notizie per l’individuazione dei sicari, pur a fronte del risconto oggettivo, ovvero attraverso la visione delle immagini, dell’impossibilità che i presenti non avessero visto e prima ancora capito nulla”.

QUATTRO COLPI DI PISTOLA PER UCCIDERE MANUELE CESARI LA SERA DEL 21 MARZO 2018

Per Manuele Cesari la sentenza di condanna a morte è stata eseguita la sera del 21 marzo 2018, mentre si trovava nei pressi di una rivendita di panini, a Melissano: centrato da quattro colpi di pistola su sei sparati. La morte, sei giorni dopo, in ospedale: “Shock traumatico da ferita d’arma da fuoco con emoperitoneo da traumatismo epatico, renale, anca e femore destro, resenzione VI segmento epatico, nefrectomia destra, riduzione cruenta di frattura pertocranterica femore destro con fissazione interna e ischemia subendocardica”, si legge nella relazione del medico legale a conclusione dell’autopsia.

Le intercettazioni chieste e autorizzate subito hanno fatto emergere da subito che l’omicidio “fosse maturato proprio all’interno dell’ambiente di appartenenza di Cesari, tra i suoi stessi amici, accoliti e associati”. Più esattamente, si inseriva in un “contrasto tra soggetti coinvolti nel traffico e nello spaccio di droga nel territorio di Melissano”. E per effetto dello stesso, “nuovi assetti stavano per determinarsi nella compagine di appartenenza di Cesari”.

IL MOVENTE DELL’OMICIDIO: “CESARI VOLEVA SUCCEDERE AD AUGUSTINO POTENZA”

Dal Gico della Guardia di Finanza di Lecce, si apprendeva che Cesari risultava appartenere al gruppo criminale capeggiato da Ferdinando Librando e dal gemello Antonio con la collaborazione di Gianni Vantaggiato e, sino alla sua

Biagio Manni

estromissione, anche di Biagio Manni”, si legge nel provvedimento. Cesari, stando alla ricostruzione, aveva raggiunto un ruolo di rilievo all’interno del sodalizio, arrivando al punto da sovrintendere le attività di approvvigionamento e di spaccio della droga. Non solo. “Rappresentava anche il braccio operativo, occupandosi della materiale esecuzione dei pestaggi, come quello che aveva visto vittima Biagio Manni, consumato con la partecipazione, tra gli altri, di Loris Pasquale Casarano e Luca Piscopiello”.

Nel provvedimento di custodia, Manuele Cesari viene definito come un “personaggio ben inserito nel tessuto criminale locale, notoriamente violento e parte attiva in vari e gravi episodi commessi anche con l’uso di armi”. Era anche “colui che, in assenza dei vertici perché detenuti, con i suoi metodi assicurava prepotentemente la leadership del sodalizio di cui faceva parte al fine di controllare e gestire il traffico di droga e le connesse attività illecite”.

Cesari aveva legami di parentela con Luciano Stefanelli, ucciso nel 1995 e “ambiva a succedere ad Augustino Potenza, già componente di spicco della Sacra corona unita”.  Potenza, tornato in libertà, viene ucciso il 26 ottobre 2016. Un mese più tardi, stessa sorte tocca a Luigi Spennato, ritenuto il suo braccio destro. A distanza di due anni, anche “Cesari, dalla forte legittimazione criminale in virtù dei succitati rapporti e quindi verosimilmente portatore di ambizioni di controllo del territorio, veniva ucciso quale conseguenza di un suo tentativo di imporsi sugli altri spacciatori”.

LE INTERCETTAZIONI TELEFONICHE E AMBIENTALI IN AUTO E IN CARCERE

Le intercettazioni autorizzate nell’ambito di un’altra inchiesta della Dda, hanno messo in evidenza che “Manni aveva assunto un ruolo importante nella compagine e che il 14 gennaio 2017 era stato picchiato brutalmente da Manuele Cesari e Loris Pasquale Casarano, con il benestare di Ferdinando Librando e con la collaborazione di Maicol Andrea Manni”. L’azione era stata portata a compimento per estrometterlo e sostituirlo con Cesari. Fin da subito, quindi, emergevano i propositi di vendetta di Biagio Manni.

Rilevante è la conversazione telefonica tra i fratelli Biagio e Gianni Manni, ascoltata il primo aprile 2017: “Gianni Manni avendo appreso del grave pestaggio, ostentava tenacemente la volontà di ritornare dalla provincia di Asti, dove viveva all’epoca, a Melissano per vendicare il fratello contro il parere di questi che tentava di dissuaderlo, avendo la consapevolezza dell’esistenza di un nutrito gruppo di rivali”. I rivali, a loro volta, “lo avevano estromesso e pestato, pronti a porre in essere altre azioni delittuose ancora più gravi per continuare a imporre agli adepti recalcitranti l’egemonia sul territorio finalizzata alla gestione e al controllo delle attività illecite, in particolare quelle relative al traffico di droga”.

Altra intercettazione considerata indizio importante, è quella intercettata il 27 marzo 2028 nell’auto di Luca Piscopiello: si parla dell’omicidio Cesari e si constata “la volontà di Librando, detto lo zio, di mettere una pietra tombale” sul fatto di sangue, “evitando di dar vita a nuove guerre”. “Piscopiello – scrive il gip – esternava tutta la sua delusione, mista a rabbia, ricordando che Cesari durante il pungo periodo di detenzione dei Librando non avesse mai fatto mancare loro il sostentamento derivante dai proventi dello spaccio”. Antonio Librando è stato in carcere dal ’93 sino a novembre 2015, mentre Ferdinando Librando dal ’90 al 3 ottobre 2015.

“Non è morto un c….non sono morto io, è morto lui che gli dava da mangiare e che sta dando da mangiare sai da quanto? Da 15 anni, i primi primi che vi manda i soldi in galera”, dice Piscopiello alla persona che è con lui in auto e che non è indagata. “Altri così non ne nascono, te lo dicendo io.. che altri così non ne nascono… con la capacità della strada che aveva lui…nessuno! Anche quando si litigava era in gamba”. L’interlocutore: “E purtroppo, invece, nonostante ciò, ti fotte sta vita”.

Antonio Librando

Questa conversazione ha permesso di “comprendere il contenuto del colloquio in carcere, avvenuto il 27 ottobre 2018, dopo l’esecuzione del fermo tra il detenuto Antonio Librando e i suoi familiari”. Uno dei parenti “contestava di non avere ancora detto la verità e di non comprendere le ragioni per le quali Ferdinando Librando fosse ancora libero, benché più significativamente invischiato nella vicenda criminale”.

“Io per la verità pensavo che tutti ti avrebbero tradito, tranne che tuo fratello… ti saresti dovuto fare i fatti tuoi, non avresti dovuto metterti in mezzo tra i litigi di tuo fratello e quelli di altri…tuo fratello si è litigato? Fatti suoi. Tu hai voluto mettere la pace? Ecco che fine hai fatto”, dice il familiare autorizzato al colloquio. La risposta di Antonio Librando:

“Che cosa devo fare l’infamone? L’infamone? Devo raccontare tutto?”.

Il silenzio, come regola e stile di vita. Il silenzio sullo sfondo degli affari criminali.

Per i pm della Dda di Lecce e per il gip è fondata l’ipotesi dell’esistenza di una “holding criminale melissanese per la gestione delle attività illecite, al cui vertice ci sono i gemelli Ferdinando e Antonio Librando”. Così come è certo che la posizione di primo piano “sia stata minata da Manuele Cesari che, con il suo violento atteggiamento, mirava all’escalation del gruppo, ancor di più con l’estromissione di Biagio Manni”. Manni all’epoca “presumibilmente non aveva accettato gli atteggiamenti impositivi di Cesari. All’eliminazione di Manuele Cesari, significativamente, seguiva la reintegrazione nel gruppo criminale di Biagio Manni”.

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