Sangue e crema

Ora so tutto, ma ancora non ci credo.
Oggi, 23 Febbraio 2050, ho scoperto che, trent’anni fa, mio nonno è morto per colpa mia.
Mia madre ha conservato il giornale. Non poteva certo immaginare che un giorno lo avrei trovato in questa cantina e che mi sarei messa a sfogliarlo. Soprattutto non poteva immaginare che avrei riconosciuto mio nonno da una foto. Quando è morto avevo tre anni e in casa mia non c’è mai stato un suo ricordo, né dentro una cornice, né sul display di un cellulare. Perché non ho mai avuto una casa mia. I miei sono sempre stati in carcere, io un po’ qui, un po’ là, con parenti o in istituti decisi da un giudice.
Eppure, quando questa pagina mi è comparsa davanti agli occhi, ho sentito qualcosa, istintivamente, direi naturalmente, ho avuto la necessità di leggere la didascalia sotto l’immagine.

Il mio stesso cognome. Ok, non è una prova. Non sono l’unica al mondo a chiamarmi così. Né mio nonno è l’unico ad aver avuto quel nome di battesimo.
Restringiamo il campo: Brindisi.
Ok, non siamo neanche gli unici a portare questo cognome nel brindisino, ma due coincidenze cominciano a essere già troppe.
La terza coincidenza è che mio nonno è morto sparato, come questo tizio di cui parla il giornale. La quarta coincidenza è che gli somiglio un po’. Il taglio degli occhi, la forma del volto, sicuramente il sorriso.
E più in basso c’è la foto di quello che l’ha ammazzato: un giovane di neanche trent’anni.
Oggi mia madre non sta più in carcere, vive con me. Avrebbe ancora un po’ di pene da scontare, ma ormai è troppo anziana e non è più autosufficiente. Le hanno dato i domiciliari, forse perché tanto non può andare più da nessuna parte. E chissà se ce l’avrebbe un altro posto dove andare.

Mi sono presentata da lei con il giornale. Dal letto in cui sta semidistesa per giornate intere, ha mosso lo sguardo verso le pagine, poi lo ha riportato verso la tv. A Forum c’era una coppia che urlava su chi dovesse tenere un bambino, ma non perché ciascuno volesse essere il prescelto. No, il problema era che nessuno dei due voleva occuparsene.
Io e quel bimbo siamo colleghi – ho pensato – Le nostre storie sono diverse, le motivazioni dei miei genitori sono state altre. Ma siamo comunque due che non sono stati voluti. Perché, mamma, cazzo, se mi volevi, mica ti facevi arrestare così tante volte! A un certo punto magari ti cercavi pure un lavoro!
Ho spento la tv e, con un po’ di stizza, ho rimesso il giornale davanti agli occhi di mia madre.
– Questo era mio nonno, vero?
Lei ha fatto cenno di sì col capo, poi, senza che le chiedessi altro, ha cominciato a raccontare.

– Era Halloween. Ci avevano invitati alla festa di compleanno di un tuo amichetto. Ci eravamo andati con tuo nonno. Avevi circa tre anni. C’era pure la famiglia di quello che poi a tuo nonno gli ha sparato. All’epoca erano tipi grossi, ma anche fuori di testa. Volevano tutto, tutto e subito. E dagli altri esigevano il rispetto.
Ha taciuto ed è rimasta per un attimo così, a guardare il televisore spento. Intorno il silenzio si è fatto pesante. Lo abbiamo sentito pulsare nelle orecchie, simile a un ronzìo.
– Ti avevo dato una fetta di torta alla crema, tu, anziché usare la forchetta – qui mi ha sorriso lievemente – ci affondasti dentro le mani. In quel momento passarono questi, dentro il passeggino avevano la figlia, più piccola di te. Ti venne da fargli una carezza, ma io ancora non ti avevo pulito le manine. Le sporcasti il vestito. Sua madre fece una serie di imprecazioni, ma fu il padre a creare il fatto. Cominciò a urlarti in faccia e ti allontanò con una spinta. Scoppiasti in lacrime. Tuo nonno sapeva con chi aveva a che fare, sapeva che stava per mettersi contro i più pericolosi di tutta Brindisi. Ma non riuscì a tollerare quello che aveva visto; e anche lui era uno che, se si incazzava, gli fumava la capo. Con il giovane non si toccarono, ma il battibecco fu furioso e si concluse con reciproche minacce. Quell’altro lo disse chiaramente “tu sei morto, io ti sparo”.

Mi sono guardata le mani, me le sono immaginate piene di crema. Mia madre ha preso fiato. Il ricordo le faceva ancora male.
– Mamma…
– No, no. Tutto bene. E’ giusto che tu sappia. E comunque la storia finisce tra poco. Il nonno era preoccupato, quella era gente che non minacciava a caso. Così, quando il giorno dopo venne uno dei loro a dirgli che quello voleva vederlo per un chiarimento, lui capì che stava a un bivio. Sembrava un ordine, magari se avesse mostrato di essere disposto a ubbidirgli, all’altro sarebbe bastato e la cosa si sarebbe conclusa lì. Però poteva pure essere una trappola per attirarlo fuori e ucciderlo. Purtroppo fu così. Appena lo vide, quello mantenne la promessa: prese la pistola e lo fulminò. Poi fuggì. Gli sbirri dopo un po’ lo trovarono, ma a lui non importava. Tuo nonno aveva osato sfidarlo. Lo sgarro doveva essere punito.

Ho guardato di nuovo le mie mani. Stavolta le ho viste macchiate di sangue. Ero una bambina, non potevo capire, però…
Mia madre ha intuito cosa stavo pensando.
– Non è colpa tua. Siamo mafiosi – ha detto sospirando – Noi non parliamo, noi spariamo. Per noi il rispetto sta nella paura che facciamo a gli altri. Sono quasi arrivata alla fine della mia vita e soltanto ora capisco che siamo una massa di coglioni. Passiamo la vita braccati dagli sbirri o dai nostri rivali, lontani dalle famiglie, in fogne scavate sotto la terra o dentro una cella. E se riusciamo a uscire, facciamo di tutto per ricominciare. Difficilmente moriamo nel nostro letto, è più facile che qualcuno ci faccia scoppiare la testa in mezzo a una strada. Sì, siamo proprio dei coglioni.
Poi ha preso il telecomando e ha riacceso la tv. A Forum c’era la televendita, una bionda vaneggiava di materassi matrimoniali e doghe in legno.
L’ho lasciata lì e sono andata a buttare il giornale nell’immondizia, ma il tanfo di umido e carta vecchia è rimasto nell’aria. A lungo.
Anche con la finestra aperta.

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