Pantera in fuga

di Thomas Pistoia

In questa notte fredda, dall’albero su cui si è arrampicata, la bestia osserva gli uomini. Dai loro movimenti capisce che non sono qui per lei. Comunque non possono vederla, il suo manto buio coincide perfettamente con l’oscurità.
La bestia conosce bene gli umani, questa razza in particolare, per certi versi molto simile ai serpenti. E’ stata prigioniera di uno di loro per lungo tempo. L’hanno catturata cucciola, qualche anno fa, nella terra natìa. L’hanno chiusa in una cassa e, di nascosto, le hanno fatto percorrere migliaia di chilometri per terra e per mare.
Perché? Per chiuderla in una gabbia.
Uno di loro, quello a cui tutti si rivolgevano con rispetto e riverenza, di tanto in tanto, la mostrava ai suoi amici. Al di là delle sbarre, la pungolava con un bastone perché voleva che lei, così piccola, ruggisse; poi rideva e diceva loro “Vedete? Lei diventerà come me”.
E’ passato il tempo e la bestia è cresciuta. Giorni fa, qualcuno non ha chiuso bene la porta della gabbia. Dapprima con curiosità, poi con bramosia crescente, lei è uscita e ha cominciato ad avanzare nel grande giardino. Si è resa subito conto che la libertà appena conquistata era illusoria. Glielo ha fatto capire quel muro di cinta intorno alla villa, alto e sormontato dal filo spinato, apparentemente invalicabile. Non ha preso neanche la rincorsa. Un balzo, poi la strada. L’istinto ha guidato l’olfatto fino alla campagna. Qui la bestia ha sperato di potersi nascondere nella vegetazione e vivere e cacciare senza più sbarre addosso.
Dopo qualche giorno, è stata avvistata dagli umani dell’altra razza, quella più pacifica, ma è sempre riuscita a tenersi a distanza, a lasciare il dubbio, in lontananza, di essere soltanto un gatto nero ben pasciuto
Presto ha compreso di non essere lei, quella in cima alla piramide alimentare. Per nutrirsi si è limitata a sgozzare qualche capra, qualche cinghiale, alcuni randagi, delle galline. Nulla rispetto a ciò che fanno le belve che, come stanotte, le è capitato di poter spiare. Loro, loro sono i veri predatori!
In queste campagne ha visto umani scuri come quelli della sua terra d’origine, chini per ore ed ore a raccogliere pomodori; presi a calci, picchiati, senza alcuna pietà. Alcuni li ha visti morire di fame e fatica. Di qualcuno che si è ribellato ha trovato i resti in una buca.
E, nello stesso modo, tra le piante, nella terra rossa, ha visto gli uomini belve uccidere e seppellire i propri compagni; ha udito gli uni parlare di sgarro, gli altri chiedere pietà. Poi ha visto la scintilla dello sparo. Ha sentito, forte, il puzzo che fa un cadavere quando brucia dentro un’auto data alle fiamme.
E stanotte, dai rami di questo ulivo, di nuovo, osserva questi esseri ingordi e letali. Hanno scavato un’altra buca (scavano sempre!), ma questa è più grande delle altre. La riempiono con dei contenitori pieni di una sostanza acida e maleodorante. Poi la ricoprono.

La bestia non ne può più. Questa terra, all’apparenza così bella, è invece satura di morte. Questi uomini belve la divorano e divorano senza tregua tutti i suoi abitanti, giorno per giorno.

Basta. Pantera decide che vuole tornare a casa.
Un richiamo atavico, un istinto indefinibile, le suggerisce che “casa” è al di là del mare. Quindi si mette in cammino.
Attraversa il Gargano, percorrendo una strada che è segnata dentro di sé, ma, benché sia scaltra e veloce, non può passare inosservata ovunque. Gli uomini, quelli dell’altra razza, quelli più pacifici, la vedono e si spaventano. La temono. Così, mentre lei corre verso il mare, loro la seguono, forse per catturarla, oppure per ucciderla.
Pantera corre senza sosta, senza più fiato, col cuore che le martella le tempie. Alle sue spalle, a piedi, in auto, in elicottero, i cacciatori la tallonano.
Là in fondo, ma ancora troppo lontana, c’è una striscia di azzurro.
Pantera non capisce. Perché la inseguono? Non è lei la belva. Lei vuole solo tornare a casa.
Non si sono accorti che sono gli umani dell’altra razza i veri assassini?
E corre, corre, corre, finché non sente il dolore trapassarle la carne. Allora capisce che è finita.
Muove ancora qualche passo. Non sa se questa nebbia che le si chiude intorno sia sonno oppure morte. Si accascia con un ultimo, lamentoso ruggito.
Mentre chiude gli occhi, le giunge il rumore dei passi degli uomini.
Una carezza di vento.
Poi, come in un sogno, il profumo del mare.

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