Raffaele Santagata, campione per sempre

di Thomas Pistoia

Lo stadio è vuoto. C’è un silenzio irreale, sfiorato a volte dal flebile fischio di folate tiepide di vento.
E’ un campo enorme, un campo da serie A, non ne ha mai visto uno così bello. Sembra San Siro, o l’Olimpico, forse anche di più. Il ragazzo è abituato a stadi più modesti, da serie cadette. E’ normale. Sta facendosi una carriera, quella che chiamano la gavetta, quella che serve a crescere. Ma l’obiettivo è questo, il traguardo è poter giocare, un giorno, in uno stadio così.
O forse no. Forse l’ambizione è superata dalla passione. Giocherebbe sempre, ovunque e con chiunque, in uno stadio o nel parco della sua città, giocherebbe in continuazione, perché questa è la sua vita, il suo sogno, l’unica cosa che vuole fare.
In pochi riescono a trasformare la propria passione in un lavoro, in pochissimi riescono a trarre di che vivere da ciò che li rende felici. Bisogna comunque provarci, per non avere rimpianti, perché è così che funziona. E’ la vita. Ci vuole il sacrificio, la tenacia, la speranza.
Al centro del cerchio di centrocampo c’è un pallone. Il ragazzo si guarda intorno. Nessuno. Però ora si rende conto che sta indossando la maglia della sua squadra del cuore, quella in cui ha sempre sognato di poter, un giorno, militare.
Nessuno. E la palla sta lì, al centro.
Con un preciso colpo di piede la solleva, poi comincia a palleggiare. Ogni calciatore conosce il rumore che fa il pallone quando tocca il piede, le varie gradazioni: il tap tap del palleggio, il colpo deciso del passaggio, quello quasi sordo del pallonetto e quello maestoso del tiro in porta.
Ogni calciatore sa la morbidezza dell’erba, la sente sotto di sé, e conosce il calore del sole e il martellìo insistente delle gocce di pioggia; sa misurare con l’occhio la distanza tra se stesso e il fondo, tra se stesso e la corsa incombente dell’avversario.
L’avversario.
Ci sono partite che non si possono vincere, ma bisogna comunque giocarle.
Il ragazzo ferma la palla sul terreno, mentre il brusio sale gradatamente. Da rumore si trasforma in vociare, parole confuse, canzoni, esclamazioni di disappunto o di gioia. Tifo. Gli spalti si riempiono improvvisamente, migliaia di braccia si alzano verso il cielo con striscioni e bandiere e tutti gridano il suo nome.
Le luci si accendono e il verde si fa intenso e bellissimo. Entrano i compagni, l’arbitro, gli avversari. Sono tutti grandi campioni, di oggi e del passato. Quelli del passato sono giovani, come lo sono stati al culmine delle loro carriere. Ci sono Pelé, Platini, Maradona, Gullit e Van Basten. Ma anche Rumenigge, Baresi, Totti, Ronaldo e Roberto Carlos. C’è Zico, c’è Sivori, Gigi Riva, c’è Rivera. Ci sono Higuaìn e Ibrahimovic, CR7 e Dybala, Alisson e Buffon. E tanti, tanti altri. Gli si avvicinano, lo salutano sorridendo, qualcuno lo abbraccia. La voce dal megafono enuncia le formazioni, un calciatore alla volta. Quando giunge al suo nome, lo stadio diventa un unico boato.
Il ragazzo non capisce, ma è tutto bellissimo. Il calcio d’inizio lo batte Roby Baggio, che gli passa il pallone e lo incita a giocare.
E’ il sogno di una vita che si avvera. Allora, palla al piede, avanza felice verso la porta avversaria e gioca benissimo, anche se le lacrime di gioia gli annebbiano la vista.
E adesso ha capito, adesso è tutto chiaro. Sta per disputare una partita di calcio che non avrà mai fine, l’ultima e la più bella. Perché il fischio d’inizio dell’arbitro, lungo, interminabile, è stato molto simile a quel bip bip che conosce bene, quello che proviene dal macchinario che ha avuto per settimane vicino al letto, in ospedale.
Ci sono partite che non si possono vincere, ma bisogna comunque giocarle.
Come quella contro questo stramaledetto male, che impera ovunque, ma soprattutto in Campania e in Puglia; ed è invincibile, spezza le gambe come un calciatore scorretto e distrugge i sogni, le speranze, il futuro, senza alcuna pietà, come un rigore.
Questo male che, ora il ragazzo ricorda, è stato come un incubo al capezzale, dentro l’ultimo bacio di sua madre, con intorno il saluto dei familiari, degli amici e di tanti altri giovani calciatori come lui, di tutte le squadre.
Il giovane calciatore si ritrova a terra, al limite dell’area di rigore. Ricorda. Ricorda tutto, tutto quello che è finito, che non ci sarà mai più. E la sua anima, disperata, gli pesa, lo tiene al suolo. Ma, dagli spalti, la gente urla il suo nome, i tifosi vogliono che si alzi e che batta lui la punizione. Uno dei tanti campioni che ha intorno, uno a caso, gli tende la mano e lo aiuta a risollevarsi.
Il pallone è lì, al limite dell’area. La barriera è disposta, il portiere è pronto. L’arbitro sta per fischiare.
Il ragazzo sente l’anima liberarsi, come in un volo, là, in alto, verso un punto dal quale non si torna più indietro. Quando sente il fischio, prende una breve rincorsa e mira sotto all’incrocio dei pali, in un punto in cui nessun portiere potrebbe mai arrivare.
Calcia sicuro, poi osserva la parabola della sfera, come al rallentatore.
E tende le braccia verso il cielo

e sorride

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