La restanza di Natale

“La Svimez ha stimato che lo scorso anno il “gap” occupazionale del Sud rispetto al Centro-Nord abbia sfiorato i 3 milioni di unità. Non è un caso che tra il 2002 e il 2017 siano emigrate dalla regioni meridionali oltre 2 milioni di persone. Altro che emergenza immigrazione: la “vera emergenza meridionale” è la ripresa dei flssi migratori verso il Centro-Nord e verso l’estero. I cittadini stranieri iscritti nei registri anagrafici del Mezzogiorno e provenienti dall’estero sono stati 64.952 nel 2015, 64.091 nel 2016 e 75.305 nel 2017. Invece i cittadini italiani cancellati dai registri del Sld per il Centro-Nord e l’estero sono stati 124.254 nel 2015, 131.430 nel 2016, 132.187 nel 2017. “Questi numeri – osserva la Svimez – dimostrano che l’emergenza emigrazione del Sud determina una perdita di popolazione, soprattutto giovanile e qualificata, solo parzialmente compensata da flussi di immigrati, modesti nel numero e caratterizzati da basse competenze. Tale dinamica determina soprattutto per il Mezzogiorno una prospettiva demografca assai preoccupante di spopolamento, che riguarda in particolare i piccoli centri sotto i 5 mila abitanti. ” (Fonte: Agensir)

di Thomas Pistoia

Al silenzio ci sono abituata.
Il silenzio che sta intorno a noi anziani non è totale assenza di rumore. C’è in sottofondo il brusìo della televisione, che recita la messa col volume al minimo, oppure soffoca e confonde le urla di Forum su Rete 4 e il susseguirsi di notizie che non ascoltiamo dal telegiornale.
C’è il passaggio delle auto dalla strada e, a volte, l’urlo dell’ambulante o dell’arrotino.
Tutto è ritmato dall’intermittenza delle luci di Natale. Ogni anno faccio un piccolo albero e limito il presepe alla sacra famiglia con l’asino e il bue. Poi, niente, aspetto la vigilia, il giorno in cui ho più da lavorare.
Per la cena, da sempre, soltanto per lui, preparo le orecchiette. Quelle salentine. A Bari le fanno piccole. Qui da noi, invece, sono più grandi e hanno il guscio rugoso, forse perché di solito le fanno le mamme un po’ in là con gli anni, oppure le nonne.
Mio marito è stato falegname, sì, come San Giuseppe. Detto cos’, sotto natale, fa un po’ ridere. Che poi di San Giuseppe si parla soltanto in questo periodo, a pasqua non lo si nomina mai. Sta lì, nel presepe, appoggiato a un bastone e guarda il bimbo nella mangiatoia con occhi da padre. Come a dire “non mi interessa nulla da dove arriva, di chi è figlio. Io lo so di chi è figlio. Da adesso è figlio mio”. Un po’ come succede in certe coppie al giorno d’oggi. Ci sono bambini che ritrovano un genitore in perfetti estranei che arrivano dopo il dramma di una separazione.
E mio marito, insomma, era falegname. Le orecchiette le faccio sempre su questa tavola qui. Me l’ha tagliata lui, l’ha preparata, me l’ha fatta liscia così. L’ha misurata giusto per quanto mi serve. Ora faccio un monticello di farina e poi lo scavo al centro, così, per fare l’impasto. Nello scavo ci metto l’acqua e comincio a lavorare con le mani.
Con le mani io e mio marito abbiamo costruito questa casa. Giorno per giorno, mattone per mattone. Una rata di mutuo al mese e sacrifici per tanti anni. Però sempre col sorriso sulle labbra. L’amore in fondo è questo, no? Costruire una vita col sorriso sulle labbra.
Certo, qualche volta si piange pure, è normale. Ci sono i lutti, i dolori. Ma si superano, piano piano, con la pazienza.
Mio marito è stato falegname, non so se l’ho già detto. Ecco, ora ho fatto questo bel panetto di impasto che deve riposare dieci minuti sotto lo strofinaccio. Ho due figli. Abitano fuori, stanno lontani. Però mi telefonano spesso. Ho anche due nipotini che mi fanno tanto ridere perchè non capiscono una, ma una sola parola di quello che dico. Io parlo dialetto, loro il tedesco. Ma non importa. “Ti voglio bene” si capisce sempre, in tutte le lingue del mondo. Sarà l’intonazione della voce, non so. Sarà che in tutte le lingue, quella frase sa arrivare nel punto preciso in cui deve arrivare.
Ora bisogna fare un rotolino di pasta, così, come una corda. Deve avere il diametro circa di un dito. Poi col coltello ne taglio un pezzetto, ma, dopo il taglio, non stacco il coltello dalla tavola, lo sposto invece verso di me, così. Ecco, ho ottenuto… Boh, in altre parti d’Italia forse lo chiamerebbero un cavatello. Ma è ora che avviene la magia. Metto il pollice nell’incavo e lo rivolto.
Ecco. E’ nata un’orecchietta.
Eh, ma devo farne ancora tante! Le metto qui, una per una, sul vassoio di cartone da pasticciere. In fila, come soldatini. Ogni Natale riempio un vassoio, lo riempio per mio marito.
Mio marito è stato falegname e aveva la barba, come San Giuseppe. In questa casa è ormai una tradizione, anche quando c’erano i figli, per la vigilia ho sempre fatto le orecchiette. E il sugo coi piselli. Senti che profumo.
A volte penso che la vigilia sia più importante, perché è attesa, desiderio. A Natale, invece, tutto è ormai compiuto, tutto è già stato. Come… Come l’inizio e la fine di un amore, no?
Perché un amore finisca, perché tra due persone arrivi il Natale, occorre che entrambi passino, che entrambi si dimentichino l’uno dell’altro. Finché uno dei due c’è e ha memoria, allora è ancora vigilia.
Ecco qua. Un vassoio ricolmo. Che fatica, però. Eh, le mani invecchiano come tutto il resto, ma finché ce la faccio…
Ora vado da mio marito. E questo vassoio glielo metto lì, sul marmo, vicino ai fiori.
Vado a dirgli buon natale. Anzi, no. Buona vigilia.
Per me conservo un pugnetto di orecchiette, così. Le mangerò stasera davanti alla tv, accanto al suo posto vuoto, nel silenzio che sta intorno a noi anziani. Quello che in sottofondo ha il volume al minimo della tv e il tìn della forchetta dentro al piatto.
La sera della vigilia nessuno dovrebbe restar solo. Mai.
Vi ho mai detto che mio marito è stato falegname?
Sì, proprio come San Giuseppe.

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