La ndrangheta rossocrociata

La mafia italiana, soprattutto la ndrangheta, in Svizzera cresce e si consolida. Come nel resto d’Europa, in assenza di una legislazione antimafia che la contrasti

La presenza della mafia italiana in Svizzera non è mitologia, ma un fenomeno tanto discreto quanto inquietante .

È soprannominato “lo Svizzero” o “Plinio”. Per i suoi amici e gli amici dei suoi amici, è “Cosimino”. Si tratta di Cosimo Leotta, sessantenne, calabrese insediato nella regione di Bienne. Affiliato alla Ndrangheta, è molto vicino a due capi lombardi, che sono diventati collaboratori di giustizia. Una sorta di “coltellino svizzero” dell’organizzazione mafiosa che fa molti viaggi tra la “Terra dei Laghi” e il nord Italia, rifornisce i suoi amici di armi, li serve come messaggero, cuoco, autista o intermediario. È anche responsabile di ospitarli in Svizzera durante i loro viaggi “di lavoro” e ha, fra i suoi amici, un direttore d’albergo che starà attento a non chiedere alcun documento d’identità per questo genere di cliente. Occasionalmente, offre loro grandi doni come l’edizione speciale della pistola Sig P210 per il 700° anniversario della Confederazione. Cosimino, con il beneficio di un permesso C (di domicilio), custodisce circa 7,5 ettari di cannabis tra i centri di Frieswil e Kappelen, con la sorveglianza di uomini armati.

Tutto andava bene in questo piccolo pezzo di campagna bernese fino al 2012: arrestati per un omicidio commesso in Italia, i due capi lombardi fanno rivelazioni ai magistrati italiani che li interrogano sul nome e sull’esistenza di “Cosimo lo Svizzero”. Nel 2013, su richiesta della Polizia giudiziaria federale, la Procura della Repubblica avvia un’indagine penale su di lui, su suo figlio e altre due persone. Poi è il momento dei processi di Bellinzona, agosto 2015 e 2018, in cui il nostro uomo è condannato a 3 anni e 8 mesi di carcere per coinvolgimento in un’organizzazione criminale, aggravato dal sostegno offerto ad alte sfere calabresi e alla confisca del piccolo arsenale che nascondeva in casa. Va così quando vengono catturati i “referenti” di cui la Ndrangheta ha bisogno all’estero per garantire la sua potenza di fuoco nei territori che controlla.

Dall’area di Bienne passiamo al Cantone dei Grigioni, dove saliamo di livello nella gerarchia ndranghetista con Giuseppe Larosa, noto come “Peppe la mucca”. Questa mammasantissima o “alto dignitario” ha vissuto tranquillamente nel piccolo villaggio di Pragg – Jenaz per quasi due anni. Disoccupato e con il beneficio di un permesso di soggiorno per motivi medici, cercava regolarmente, ma invano, di “collocare” i lavoratori – tutti calabresi – nelle compagnie edili locali, senza che nessuno conoscesse la loro reale identità. Il suo vero intento era però un altro: l’uomo aveva molti interessi e contatti in Svizzera, che sfruttava come “punto di passaggio” tra i clan lombardi e l’ormai famosa mafia della Società di Frauenfeld . Sapeva come intimidire, minacciando di “spaccare la testa” a coloro che non avessero pagato le loro quote all’organizzazione. “Peppe la Mucca” è stato arrestato in Italia nel 2014, insieme a circa altre 40 persone, durante l’Operazione Insubria  e condannato a 10 anni di prigione. Tuttavia, il pubblico ministero della Confederazione non gli ha contestato alcun reato per “mancanza di quei sospetti che presumono sia stato commesso un reato”. Nemmeno l’ombra di una procedura a livello cantonale, nemmeno per un permesso di soggiorno scaduto due mesi prima del suo arresto. Vi sono state amministrazioni più rapide nell’intervenire in tali casi.

L’ultimo arrestato “vicino” alla Ndrangheta in Svizzera è Pasquale Buonvicino, noto come “Lillino”. Buonvicino è stato beccato il 7 settembre in un bed and breakfast vicino a Lugano, dopo quattro mesi di latitanza. Motivo? Un doppio omicidio commesso con due complici in Calabria, sullo sfondo di storie di terreni agricoli e bestiame. Le vittime erano pastori, padre e figlio, rispettivamente zio e cugino di Buonvicino. Erano scomparsi il giorno di Pasqua e i loro corpi sono stati trovati in fondo a un burrone il 4 settembre 2019, tre giorni prima dell’arresto di Buonvicino. Non è atterrato in Ticino per caso, figuriamoci senza aiuto e senza supporto logistico. E questo è un esempio di quanto sia difficile catturare un sospetto e costruire un’indagine giudiziaria sufficientemente solida solo sulla base della vicinanza a “onorevoli compagnie”, benché le attività di alcuni siano più che dubbie.

E allora: a quando l’introduzione nel diritto svizzero del reato, già introdotto in Italia, di “concorso esterno in associazione mafiosa”, cioè dell’essere ritenuti complici di un crimine o di un reato senza appartenere direttamente a una mafia?

L’inquirente è costretto a fare ciò che può con un quadro legislativo che non lo aiuta e con un Consiglio federale convinto di avere armi affilate in termini di criminalità organizzata.

Quanti oscuri amici di amici, complici e confidenti navigano nelle acque svizzere oltre ai casi citati? Quanti di loro sono sotto sorveglianza? Impossibile articolare cifre. Ciò che è certo è che la Svizzera è stata a lungo una comoda base per le mafie, a causa della vicinanza geografica e del supporto logistico su cui possono contare. E ci sono anche debolezze svizzere nel quadro legislativo e nella lotta alla criminalità, proprio come in altri paesi europei, in particolare in Germania, dove i rappresentanti della Ndrangheta e in misura minore della Camorra – sono una moltitudine. E Cosa Nostra, direte? Già indebolita dalle “maxi cause” alla fine degli anni ’90, decimata da regolamenti di conti interni, a corto di liquidità e affiliati, la “piovra” siciliana sta morendo e non può più agire senza il permesso del suo potente vicino, la Ndrangheta, che fattura vertiginose somme con il traffico di droga e altre attività su scala globale. Fortune che la mafia calabrese cerca di reinvestire, di solito, in settori facilmente accessibili come edilizia e restauro, trasporto di materiali o trattamento dei rifiuti.

Ancora più astutamente, la presenza di elementi mafiosi in Svizzera, incentrata sul proselitismo e sull’affiliazione, è un rischio per gli italiani di seconda e terza generazione. Ciò ha spinto i Comitati degli italiani all’estero di Basilea, Berna – Neuchâtel e Zurigo a lanciare il Progetto Legalità (2017 – 2019) volto a sensibilizzare adolescenti e giovani adulti. Sul modello di ciò che viene fatto in Italia, il progetto prevede conferenze pubbliche che accolgano ospiti italiani – pubblici ministeri, giornalisti, scrittori e oratori di fama – nonché eventi e interventi nelle scuole. Questo tipo di progetto è uno dei modi per portare luce su un fenomeno che tende a rimanere astratto nella mente del cittadino medio al pari di un crimine sanguinoso come la Strage di Duisburg in Germania, nel 2007. E il silenzio nei media e nelle decisioni giudiziarie circonda questi casi. Il primato dell’interesse privato sull’interesse generale ha un “futuro brillante” davanti a sé. Gli avvocati e il legislatore ci stanno ancora lavorato.

Ci sono eccezioni, tuttavia, come a Frauenfeld, dove il video di ndranghetisti seduti nella sala del ristorante Schäfli – immagini diffuse dai Carabinieri italiani nel 2014 – ha consentito alla popolazione di sviluppare consapevolezza e di preoccuparsi. In questo caso, c’erano nomi, volti, voci, insomma elementi concreti. Le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche restituiscono le parole dei giuramenti – mescolando elementi religiosi, mistici e pagani – pronunciati all’inizio e alla fine degli incontri.

Gli uomini della “Frauenfeld Society” si vantano di essere in Svizzera da quarant’anni e che nessuno ha mai osato fermarli. Ai giovani presenti a una di queste cerimonie, il capo spiega che coloro che vogliono lavorare hanno l’imbarazzo della scelta (“estorsione, cocaina, eroina …”) e ricorda loro che tutto si basa su “onore, saggezza e dignità”. E, per inciso, sulla loro discrezione e quella della comunità calabrese. I pochi residenti calabresi di Frauenfeld che hanno gentilmente risposto ai giornalisti hanno ripetuto le stesse parole: “li conosciamo, sappiamo cosa fanno… non ho paura, ma ho una famiglia, capisci?”. Se Questi bravi ragazzi di Frauenfeld (dal titolo di un’inchiesta del programma investigativo della Rsi) sono stati in grado di fare i loro affari in pace per decenni, possiamo ancora chiederci quanti clan siano attualmente attivi nel territorio. Circa una ventina, secondo il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che, come molti dei suoi colleghi, ripete – e senza indossare i guanti – che il sistema giudiziario svizzero non è adattato all’attuale realtà mafiosa.

Per misurare meglio questa realtà, ecco un testimone a Iselle di Trasquera, l’ultima città prima di Sempione, a pochi chilometri da Domodossola. Il mio contatto sta aspettando nella sua auto presso il parcheggio della stazione. Lo chiameremo Theo e diremo che è un impiegato comunale di una piccola città vallese. Il treno arriva in stazione, Theo è davanti a me. Caricate e posizionate le auto sul vagone, ci sediamo nella mia e Theo mi affida tutti i documenti, tra cui alcuni ufficiali. Durante i venti minuti del viaggio nel tunnel buio, con la torcia, Theo – febbrile ma posato e sicuro di sé – racconta tutto ciò che lo scandalizza: licenze concesse a un’importante famiglia italiana, autorità cantonali inerti quando Theo presenta loro casi problematici (debitamente documentati), una vecchia storia di lavori stradali eseguiti in Svizzera da un appaltatore italiano che polizia italiana menziona per “associazione di tipo mafioso, detenzione e trasporto di armi offensive” o sospetti di collusione tra una società di costruzioni a guida italiana e politici locali.

Saranno necessarie tre ore e un caffè in un bistrot di Viege per rivedere tutto. Una documentazione che a volte è stata oggetto di articoli sulla stampa locale, ma che merita maggiore attenzione. Theo non manca di coraggio e non agisce per motivi personali. Non è la prima volta che parla con un giornalista. Si sente impotente e isolato e non chiede molto: solo un po’ di chiarezza da parte delle autorità e, se possibile, l’applicazione della legge quando c’è oggettivamente materia su cui indagare e fare domande. Oltre al fatto che “il Vallese è sul podio della mafia”, come cita il titolo di Le Nouvelliste dello scorso maggio, questo cantone subisce lo stesso danno del Ticino, dove molte sfere si intersecano assicurandosi di non scontrarsi: tutti si conoscono o vogliono conoscersi e aumenta il rischio di collusione, lassismo e corruzione rispetto a qualsiasi altro luogo.

Può chiamarsi mafia silenziosa, sotterranea, quarta mafia, mafia svizzera o Ndrangheta rossocrociata (rosso con croce bianca). Ma non importa l’etichetta. La difficoltà è quella di innalzare la soglia di allerta senza peccare di eccessivo allarmismo e garantire una più stretta sorveglianza del territorio senza sprofondare in una xenofobia che designa qualsiasi italiano come potenziale mafia. Un problema che l’Italia conosce, a modo suo: lì, il confine tra il centro – nord e il sud è sempre molto marcato. Non è raro che i meridionali vengano insultati per le strade di Firenze, Bologna o Milano. Ma quelli che li insultano dimenticano che anche le loro stesse regioni, presumibilmente più avanzate, ne sono vittima.

Proviamo a valutare la gravità di questa espansione in Svizzera: tra il 2010 e il 2019, tutti gli arresti hanno riguardato affiliati o parenti della Ndrangheta, domiciliati in Svizzera o al confine. Tuttavia, ci sono solo due eccezioni: l’arresto e l’estradizione di un membro dello Stidda (la “piccola” mafia siciliana, ultra – violenta e rivale di Cosa Nostra) nel 2010, e quella di una giovane donna legata alla Sacra Corona Unita (la mafia pugliese) nel 2015. Il primo, voluto in Italia, viveva sotto falsa identità vicino a Lugano; la seconda, in fuga, aveva trovato rifugio nel cantone di Neuchâtel. Potremmo aggiungere a tutti questi casi un lungo elenco di episodi sospetti di violenza (ristoranti bruciati, minacce, risse) identificati in Ticino, in siti “in odore di mafia” (autostrada A9, tunnel Eyholz in Vallese e tunnel di Monte Ceneri, tra gli altri) e una nebulosa di personaggi (consulenti finanziari, truffatori e intermediari di ogni genere) i cui legami con la mafia non possono essere chiaramente dimostrati. Per non parlare, purtroppo, di decessi sospetti classificati come suicidi dalle autorità svizzere, ma sui quali i carabinieri e i magistrati italiani nutrono grossi dubbi.

Prendiamo Valerio Mascaro, 24 anni, che viveva nei sobborghi di Milano. Il suo corpo è stato trovato nel febbraio 2001 in una foresta a Lamone, non lontano da Lugano. L’arma che lo ha ucciso è stata poggiata sul suo petto. Operato al ginocchio poco prima, si muoveva con le stampelle. Difficile immaginare che si avventurasse in terreni accidentati, probabilmente di notte, in quelle condizioni. Probabilmente, è stato coinvolto in casi riguardanti un clan della Ndrangheta ed è stato eliminato per garantirne il silenzio.


Anche la morte dell’avvocato e notaio ticinese Daniele Borelli ha le sue zone grigie. Trovato impiccato nella sua casa di Luanda nel dicembre 2011, è stato oggetto di un’indagine condotta dai pubblici ministeri di Milano e Reggio Calabria. I sospetti di collusione con due clan di Ndrangheta lo avrebbero spinto al suicidio. Ma come riportato da diversi giornali italiani e ticinesi, la questione dei denti rotti, del viso gonfio e della piccola scala rovesciata “dalla parte sbagliata rispetto al corpo” rimane aperta.

Fonte: L’Illustré

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