Il tentato omicidio a colpi di kalashnikov di Afendi, compagno della vedova del boss della scu Augustino Potenza traccia la pista dell’evoluzione del clan salentino
Casarano ripiomba nel terrore.
In realtà dal terrore non ne è mai uscita.

Un agguato mafioso ha quasi ucciso Antonio Afendi, ventottenne di origine marocchina residente a Casarano (Le).
Colpito da un kalashnikov al collo e alla spalla, in via Alessandro Manzoni, non è in pericolo di vita. Ma volevano ucciderlo.
La macchina usata per l’attentato è probabilmente quella trovata poco dopo, in fiamme, sulla statale Maglie-Lecce.
“Lu Afendi”, come è chiamato in paese, non è uno qualsiasi: è il compagno della vedova di Augustino Potenza, boss della sacra corona unita, la mafia salentina. Potenza fu ucciso a colpi di fucile mitragliatore kalashnikov esattamente tre anni fa, il 26 ottobre, nel parcheggio del più grande centro commerciale di Casarano, all’ora di punta, quando le famiglie, nel pomeriggio e dopo il lavoro, vanno a fare la spesa.
Per chi conosce i segnali mafiosi, la scelta della dinamica dei due attentati, dell’arma e della data non sono dettagli su cui passarci sopra.
Perché Afendi, all’indomani dell’assassinio di Augustino Potenza, aveva preso in mano le redini dell’organizzazione, forte del vincolo con la vedova dello stesso Potenza, Elisa De Santi.
E lo stesso giorno in cui morì il boss, doveva morire quello che la vedova aveva messo al vertice.
Noto agli inquirenti e sotto osservazione da tempo, dopo l’assassinio del boss Potenza ha avuto nel bar di Elisa De Santi il suo quartier generale. Il bar della moglie del boss chiuso più volte dai Carabinieri di Casarano. Una scelta presa in autonomia dall’Arma per ostacolare, sebbene per un tempo limitato, i business mafiosi che ruotavano attorno a quel bar nei pressi dell’Ospedale.
Augustino Potenza aveva un libro mastro, dove segnava ogni dare ed avere. Nomi di persone e aziende in cui aveva reinvestito i soldi frutto del business di droga, soprattutto cocaina, spacciata sui lidi intestati a suoi prestanome di cui gestiva anche la guardianìa: su questo, sul suo gioco di scatole cinesi in cui riciclava il denaro frutto dello spaccio, nessuna indagine da parte della Procura di Lecce.
Afendi è stato finora personaggio strategico per tenere salda quella rete, soprattutto per pretendere i crediti in sospeso dopo la morte di Potenza e riprendersi gli utili dei soldi riciclati in aziende, lidi, pompe di benzina, ristoranti ed esercizi commerciali.
Un “tesoretto” mai ritrovato.
Un’eredità ingente, dovuta alla moglie del boss e ai suoi figli.
Casarano non è mai uscita da quell’atmosfera sospesa di terrore e circospetto, che ti porta a camminare per le strade, che siano deserte o no, in punta di piedi, come se da un momento all’altro dovessi saltare in aria.
All’indomani dell’assassinio del boss Potenza, per lungo tempo il paese è stato deserto già prima dell’imbrunire: un’aria densa di paura, stigmatizzata egregiamente dal collega Marco Sabene, inviato a Casarano da Radio Rai Due.
Solo chi non sa e non vuole sapere può ignorare i fatti che, noti ai cittadini di Casarano e del basso Salento, sono stati messi nero su bianco dalle inchieste del Tacco d’Italia e poi nel fascicolo dell’operazione “Diarchia”, con cui la magistratura ha cercato di tagliare la testa al clan Montedoro-Potenza.
Negli atti d’indagine, c’è la conferma di un sistema di consenso sociale diffuso da parte dei cittadini verso il clan Montedoro-Potenza: un consenso conquistato con lo scambio di favori o con il terrore e la paura.


C’è la conferma del sostegno elettorale accordato dal clan Montedoro-Potenza al centro destra casaranese.
C’è la “contiguità” e “l’assonanza” tra il clan Montedoro Potenza e almeno un amministratore comunale, il consigliere Gigi Loris Stefàno, definito dal boss Montedoro “amico nostro”, così scritto al plurale: “nostro”, cioè del clan.
C’è il fatto che quel consigliere è stato eletto, nelle elezioni amministrative del 2012, nella lista personale del sindaco Gianni Stefàno e degli assessori Ottavio De Nuzzo (oggi vicesindaco) e Matilde Macchitella.

Sindaco Stefàno, assessore De Nuzzo e assessora Macchitella, tutti riconfermati alle ultime elezioni.
C’è quel vecchio gruppo di amici e compari, che sempre amici e compari rimangono, a iniziare dai prestanome della vecchia società di Augustino Potenza, la “Italiano tenace srl”, e i suoi addetti commerciali, alle vendite, alla promozione. Una pletora di gregari sparsi sul basso Salento, che tutti conoscono, e che tutti riescono perfettamente ad inquadrare nella casella giusta della nuova geografia criminale, sempre a cavallo tra politica-imprenditoria-mafia. E dopo averli inquadrati, ciascuno decide di stare di là, con loro, o di qua, con i cittadini che con la mafia non vogliono avere nulla a che fare.
“Interessenze”, così le definisce la Direzione investigativa antimafia nell’ultima relazione.
La Dia parla di “interessenze”, cioè partecipazione diretta agli utili negli affari che hanno in comune i politici, gli imprenditori e i mafiosi propriamente detti, cioè quelli che hanno la fedina penale occupata da vari reati di mafia.
La Dia parla di “interessenze” proprio in riferimento al basso Salento e proprio in riferimento al territorio di Casarano, Parabita e dintorni, dove agisce quello che è ormai definito (appunto, dalla Dia) “clan Montedoro-Potenza-Scarlino-Giannelli”.
Gli investigatori e i magistrati antimafia infatti considerano un unicum sia il territorio in cui agisce questo clan, Casarano-Parabita e il basso Salento, sia i vertici dell’organizzazione mafiosa.
In un quadro così complicato e in un sistema di infiltrazioni mafiose così difficili da districare e difficili anche da incardinare in un “reato”, che cosa possono fare i cittadini?
Ci sono stati in tre anni prudenti comunicati stampa e qualche manifestazione poco o nulla partecipata: comunque segnali importanti per segnare le distanze. Serve di più. Serve più coraggio. Dove e come trovarlo?
Le infiltrazioni mafiose in un territorio così asfittico e ormai impoverito dalla crisi del manifatturiero, sono sotterranee perché basate su un diffuso consenso sociale verso la mafia, che detta legge o disseminando paura o dando e ricevendo utili e favori.
Su questo, su queste interessenze, c’è omertà e paura a tutti i livelli, ma è proprio l’omertà e la paura a rappresentare la conferma della presenza e delle influenze di tali “interessenze”.
L’Amministrazione Stefàno è riuscita a spaccare in due l’opinione pubblica, e l’ha fatto con un manifesto intitolato “Casarano non è mafiosa” e con un comunicato stampa identico, pubblicato sul profilo ufficiale del sindaco.
Chi ha sposato la tesi e la strategia del primo cittadino, l’abbiamo avuto ben chiaro subito: erano i firmatari delle centinaia di commenti a favore del boss Augustino Potenza, pubblicati in coda al comunicato stampa del sindaco. Tra questi la moglie di Potenza e i suoi sodali, che, sempre in coda a quel comunicato che affermava “Casarano non è mafiosa”, inneggiavano al boss.
“Casarano non è mafiosa”, scritto da chi ha fatto eleggere nella propria lista quello che Montedoro definisce “amico nostro”, stigmatizza plasticamente chi sta con chi. Se ce ne fosse bisogno. Comunque, che i sodali del boss sottoscrivessero il comunicato e il manifesto dicendo che la mafia non c’è, è stato un paradosso molto utile.
Dall’altra parte, stanno quelli che non si sono riconosciuti in quel manifesto, riconoscendone l’ipocrisia e il contenuto minaccioso; che non si sono riconosciuti nelle querele pagate dal sindaco e dall’intera Giunta con soldi pubblici e archiviate, perché quello che aveva scritto la sottoscritta era tutto vero (leggi anche qui e qui).
La recente sentenza della Cassazione su “mafia Capitale” ha lasciato sgomenta l’Italia che riconosce la criminalità organizzata anche quando indossa la cravatta, trovando la forza di dire “no”.
La riconosce la parte dell’Italia che dice “no” alla mafia, ma non la Cassazione, che non ha riconosciuto come mafia il sistema criminale che a Roma ruotava attorno a Massimo Carminati e Salvatore Buzzi che tuttavia riusciva a sottomettere un territorio e un sistema economico e sociale con la paura, la minaccia, l’omertà, il ricatto. Ha riconosciuto tutti i reati, ma senza riconoscerne la connotazione mafiosa.
Più vicino a noi, la Corte d’Appello di Lecce non ha riconosciuto come mafioso il sistema di Gianluigi Rosafio, genero del boss della scu, Pippi Calamita, condannato e autocondannatosi per reati di sversamento illecito di rifiuti speciali e pericolosi, tra cui i fusti di pcb dentro e fuori la discarica di Burgesi. La pm Elsa Valeria Mignone non ha impugnato la sentenza d’appello.
Come per “mafia Capitale”, quindi, reati riconosciuti, ma senza la valenza mafiosa.
Questo perché le mafie sono cambiate: hanno cambiato faccia e pelle e quando arrivano i procedimenti penali a perseguire i quattro scarzacani che si sparano tra loro, è tardi.
La mafia va riconosciuta prima, quando occupa le stanze dei bottoni, chiede voti in cambio e li ottiene, quando si stringono amicizie e in base a queste si sottomette il territorio.
Le facili vittorie di chi mette in galera chi già c’è e i facili pentitismi che nulla danno alla giustizia se non la ratifica di ciò che già si sa, non servono ai cittadini.
Nessuna istituzione ha il diritto di chiedere coraggio ai cittadini se per prima non dimostra di averne.
Più coraggio deve avere la magistratura, più coraggio la Prefettura, più coraggio il Ministro degli Interni.
Se mafia c’è va stroncata fin dentro alle sue propaggini nei palazzi di Città.
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Speriamo che qualcuno prenda queste parole sul serio
Sono indignata. Non solo dell’accaduto ma della reazione o meglio della mancanza di reazione. Sembrano tutti anestetizzati allo stato di fatto. Nessuno sgomento.
Più di tre anni fa, insieme a una dodicina di concittadini, abbiamo costituito un Comitato. Abbiamo organizzato marce civiche e momenti di riflessione nella vana speranza di risvegliare il paese. Tuttavia, la gente continua a dormire adagiata sul negazionismo. “La mafia a Casarano non esiste” dicono i poteri forti e giù con le querele temerarie per azzittire chi osa dire ciò. E la cittadinanza applaude perché è più facile negare piuttosto che rimboccarsi le maniche.
Noi crediamo nelle istituzioni e per questo abbiamo anche organizzato un consiglio comunale monotematico a cui ha partecipato il prefetto che, in tale sede, ha parlato di sicurezza del paese e di controllo del territorio. Mi sfugge poi il seguito. Sono state poste in essere attività di vigilanza? Gli inquirenti hanno approfondito la fitta trama di rapporti e interessi? I cittadini si sono svegliati dal torpore dell’indifferenza e della paura? L’amministrazione ha attivato percorsi e progetti efficaci?
Finché le mele marce in un sistema marcio continueranno a fare i loro porci comodi, noi avremo anche paura di portare il cane a spasso alle dieci di sera per non trovarci in mezzo al fuoco incrociato.
Non può continuare così. La città è nostra e ce la dobbiamo riprendere. Però da soli non possiamo farcela. Ci mobiliteremo per trovare soluzioni concrete ma perché esse siano efficaci occorre che ci muoviamo tutti!
Diritto di cronaca a parte, l’articolo descrive benissimo anche lo stato d’animo di molti… Grazie, Marilù.
Ci risiamo…
Sono un avvocato penalista, e come tale sono abituata a preparare e sostenere una difesa. Ma qui il problema, oltre al fatto che stavolta l’accusata sarei io, è questo: di che cosa mi si accusa? Quale sarebbe, per così dire, l’ipotesi investigativa?
Per la seconda volta (e quindi ci sarebbe recidiva, se mia, o di chi scrive l’articolo è da stabilire) vengo tirata in ballo in un articolo che parla di MAFIA e di persone e personaggi che non ho mai conosciuto e probabilmente mai neppure incontrato nella mia vita, o se mai li ho incrociati, non me ne sono neanche accorta, non conoscendoli. Eppure, il mio nome viene riportato in grassetto, e accomunato addirittura ad Augustino Potenza la prima volta, e stavolta, con tanto di fotografia, ad Antonio Afedin, che mai avevo neppure sentito nominare prima degli ultimi accadimenti.
Se ho ben capito, la tesi, nel 2016, era questa: sei amministratrice di questa città, e già questa evidentemente è una colpa -forse perché non sono dalla parte giusta secondo chi scrive-; sei stata eletta nella lista del Sindaco Stefano, doppia colpa, perché in quella lista sarebbe stato candidato pure il consigliere che pare fosse amico di Augustino Potenza (sebbene non gli sia mai stato contestato alcunché, se non dalla stessa giornalista).
Ma qual è il sillogismo? Che tutti i candidati di quella lista del 2012 erano mafiosi? E allora perché solo il mio nome veniva riportato ed evidenziato in grassetto?
E oggi? Qual è la logica che giustificherebbe un mio coinvolgimento in questo nuovo articolo?
Siamo a sette anni dopo quelle candidature, io sono nuovamente amministratrice (ahilei, evidentemente, visto che devo essere particolarmente invisa alla stimata giornalista), ma sono stata eletta in una lista diversa. Senza badare ad una convenienza elettorale, sono uscita dalla lista del Sindaco, notoriamente la più suffragata, e mi sono candidata in una lista che già si immaginava avrebbe potuto esprimere non più di un seggio. Fatto sta che, pur essendo assessore uscente alle Politiche sociali, assessorato che notoriamente fa il pieno di voti, sono stata eletta con appena 228 voti, tanto da essere fuori dalla giunta. Ricordo i commenti increduli della stampa, e non solo, per il mio mediocre risultato.
Risultato che per me, invece, era la mia medaglia: il riconoscimento al lavoro fatto nei cinque anni precedenti, teso a cambiare in radice la mentalità di chi era stato abituato per decenni a chinare il capo e a chiedere favori, ma che con me aveva trovato solo regole, valide per tutti. Pagavo il prezzo del mio rigore con l’impopolarità – credo anche l’antipatia-, di cui pur essendo in politica ormai da anni, vado assolutamente fiera.
E se non fosse stato per un imprevisto, sarei rimasta consigliere comunale. Invece mi è capitato di subentrare nella carica di assessore, in quanto prima dei non eletti nella mia lista.
E allora tutto questo, che è storia di impegno, di sacrifici, di fatica, spesso di sofferenza, ma anche di coraggio e di intime soddisfazioni, e che probabilmente non interessa a nessuno, perché non contiene nulla di scabroso o di pruriginoso, come si coniuga con la Mafia? Con il clan Montedoro-Potenza?
Mah! Mistero
Ciò che ancora più stupisce è che evidentemente c’è qualcosa che non mi viene perdonato, ma vorrei capire cosa. Anch’io, come la giornalista, sono una donna, una madre, una professionista, prima ancora che un’amministratrice, ma lei non si fa alcuno scrupolo ad infangarmi senza alcuna ragione, senza alcun collegamento plausibile con i fatti di cronaca narrati. Posso supporre solo una personale antipatia, nata magari sui banchi di scuola che abbiamo condiviso dagli 11 ai 18 anni, e che a mia insaputa devono aver profondamente segnato la mia amica.
Tuttavia, se tre anni fa queste calunnie mi turbarono profondamente e a lungo, oggi, invece, mi fanno sorridere, perché quell’esperienza mi ha fatto comprendere che non basta raccontare delle falsità perché tutti ci credano. Per fortuna le persone conoscono me e la mia famiglia, e se mio padre è arrivato ad 88 anni accompagnato dalla stima e l’affetto dei più, pur avendo sempre fatto politica, pur essendo sempre stato schierato, non saranno certo delle risibili illazioni a screditare la mia reputazione, che dalla sua trae origine.
Piuttosto, credo con Sant’Agostino che la verità è come i leoni, non avrai bisogno di difenderla: lasciala libera, si difenderà da sola.
Matilde Macchitella