Casarano: la mafia che non si dice ma si fa

di Marilù Mastrogiovanni

Il tentato omicidio a colpi di kalashnikov di Afendi, compagno della vedova del boss della scu Augustino Potenza traccia la pista dell’evoluzione del clan salentino

 

 

Casarano ripiomba nel terrore.

In realtà dal terrore non ne è mai uscita.

Un agguato mafioso ha quasi ucciso Antonio Afendi, ventottenne di origine marocchina residente a Casarano (Le).

Colpito da un kalashnikov al collo e alla spalla, in via Alessandro Manzoni, non è in. . .

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4 Thoughts to “Casarano: la mafia che non si dice ma si fa”

  1. Riso Biagio

    Speriamo che qualcuno prenda queste parole sul serio

  2. Libera Micaela

    Sono indignata. Non solo dell’accaduto ma della reazione o meglio della mancanza di reazione. Sembrano tutti anestetizzati allo stato di fatto. Nessuno sgomento.
    Più di tre anni fa, insieme a una dodicina di concittadini, abbiamo costituito un Comitato. Abbiamo organizzato marce civiche e momenti di riflessione nella vana speranza di risvegliare il paese. Tuttavia, la gente continua a dormire adagiata sul negazionismo. “La mafia a Casarano non esiste” dicono i poteri forti e giù con le querele temerarie per azzittire chi osa dire ciò. E la cittadinanza applaude perché è più facile negare piuttosto che rimboccarsi le maniche.
    Noi crediamo nelle istituzioni e per questo abbiamo anche organizzato un consiglio comunale monotematico a cui ha partecipato il prefetto che, in tale sede, ha parlato di sicurezza del paese e di controllo del territorio. Mi sfugge poi il seguito. Sono state poste in essere attività di vigilanza? Gli inquirenti hanno approfondito la fitta trama di rapporti e interessi? I cittadini si sono svegliati dal torpore dell’indifferenza e della paura? L’amministrazione ha attivato percorsi e progetti efficaci?
    Finché le mele marce in un sistema marcio continueranno a fare i loro porci comodi, noi avremo anche paura di portare il cane a spasso alle dieci di sera per non trovarci in mezzo al fuoco incrociato.
    Non può continuare così. La città è nostra e ce la dobbiamo riprendere. Però da soli non possiamo farcela. Ci mobiliteremo per trovare soluzioni concrete ma perché esse siano efficaci occorre che ci muoviamo tutti!

  3. Loredana Sanapo

    Diritto di cronaca a parte, l’articolo descrive benissimo anche lo stato d’animo di molti… Grazie, Marilù.

  4. Matilde Macchitella

    Ci risiamo…
    Sono un avvocato penalista, e come tale sono abituata a preparare e sostenere una difesa. Ma qui il problema, oltre al fatto che stavolta l’accusata sarei io, è questo: di che cosa mi si accusa? Quale sarebbe, per così dire, l’ipotesi investigativa?
    Per la seconda volta (e quindi ci sarebbe recidiva, se mia, o di chi scrive l’articolo è da stabilire) vengo tirata in ballo in un articolo che parla di MAFIA e di persone e personaggi che non ho mai conosciuto e probabilmente mai neppure incontrato nella mia vita, o se mai li ho incrociati, non me ne sono neanche accorta, non conoscendoli. Eppure, il mio nome viene riportato in grassetto, e accomunato addirittura ad Augustino Potenza la prima volta, e stavolta, con tanto di fotografia, ad Antonio Afedin, che mai avevo neppure sentito nominare prima degli ultimi accadimenti.
    Se ho ben capito, la tesi, nel 2016, era questa: sei amministratrice di questa città, e già questa evidentemente è una colpa -forse perché non sono dalla parte giusta secondo chi scrive-; sei stata eletta nella lista del Sindaco Stefano, doppia colpa, perché in quella lista sarebbe stato candidato pure il consigliere che pare fosse amico di Augustino Potenza (sebbene non gli sia mai stato contestato alcunché, se non dalla stessa giornalista).
    Ma qual è il sillogismo? Che tutti i candidati di quella lista del 2012 erano mafiosi? E allora perché solo il mio nome veniva riportato ed evidenziato in grassetto?
    E oggi? Qual è la logica che giustificherebbe un mio coinvolgimento in questo nuovo articolo?
    Siamo a sette anni dopo quelle candidature, io sono nuovamente amministratrice (ahilei, evidentemente, visto che devo essere particolarmente invisa alla stimata giornalista), ma sono stata eletta in una lista diversa. Senza badare ad una convenienza elettorale, sono uscita dalla lista del Sindaco, notoriamente la più suffragata, e mi sono candidata in una lista che già si immaginava avrebbe potuto esprimere non più di un seggio. Fatto sta che, pur essendo assessore uscente alle Politiche sociali, assessorato che notoriamente fa il pieno di voti, sono stata eletta con appena 228 voti, tanto da essere fuori dalla giunta. Ricordo i commenti increduli della stampa, e non solo, per il mio mediocre risultato.
    Risultato che per me, invece, era la mia medaglia: il riconoscimento al lavoro fatto nei cinque anni precedenti, teso a cambiare in radice la mentalità di chi era stato abituato per decenni a chinare il capo e a chiedere favori, ma che con me aveva trovato solo regole, valide per tutti. Pagavo il prezzo del mio rigore con l’impopolarità – credo anche l’antipatia-, di cui pur essendo in politica ormai da anni, vado assolutamente fiera.
    E se non fosse stato per un imprevisto, sarei rimasta consigliere comunale. Invece mi è capitato di subentrare nella carica di assessore, in quanto prima dei non eletti nella mia lista.
    E allora tutto questo, che è storia di impegno, di sacrifici, di fatica, spesso di sofferenza, ma anche di coraggio e di intime soddisfazioni, e che probabilmente non interessa a nessuno, perché non contiene nulla di scabroso o di pruriginoso, come si coniuga con la Mafia? Con il clan Montedoro-Potenza?
    Mah! Mistero
    Ciò che ancora più stupisce è che evidentemente c’è qualcosa che non mi viene perdonato, ma vorrei capire cosa. Anch’io, come la giornalista, sono una donna, una madre, una professionista, prima ancora che un’amministratrice, ma lei non si fa alcuno scrupolo ad infangarmi senza alcuna ragione, senza alcun collegamento plausibile con i fatti di cronaca narrati. Posso supporre solo una personale antipatia, nata magari sui banchi di scuola che abbiamo condiviso dagli 11 ai 18 anni, e che a mia insaputa devono aver profondamente segnato la mia amica.
    Tuttavia, se tre anni fa queste calunnie mi turbarono profondamente e a lungo, oggi, invece, mi fanno sorridere, perché quell’esperienza mi ha fatto comprendere che non basta raccontare delle falsità perché tutti ci credano. Per fortuna le persone conoscono me e la mia famiglia, e se mio padre è arrivato ad 88 anni accompagnato dalla stima e l’affetto dei più, pur avendo sempre fatto politica, pur essendo sempre stato schierato, non saranno certo delle risibili illazioni a screditare la mia reputazione, che dalla sua trae origine.
    Piuttosto, credo con Sant’Agostino che la verità è come i leoni, non avrai bisogno di difenderla: lasciala libera, si difenderà da sola.
    Matilde Macchitella

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