Tempo partecipato

Di Barbara Toma

 

Sono a Venezia. Città di una bellezza talmente dirompente da togliere il fiato. Città misteriosa e fragile. Letteralmente invasa da masse di turisti, grandi navi che, se ferme, potrebbero essere confuse per palazzi, e grandi eventi.

Vago per le calli senza mappa, ogni tanto visito una mostra, mi nutro di nuovi odori, immagini, sensazioni, mi ricarico. E, nel frattempo, lavoro. Sono ospite di una fondazione di arte contemporanea russa. Con i miei colleghi, principalmente artisti visivi, architetti, attivisti e curatori, arrivati qui da Bombay, New York, Mosca, Berlino e Roma, sono stata chiamata a dare corpo e voce al tema della mostra attualmente allestita qui alla fondazione V_A_C.:  Time Forward.

Una riflessione sul tempo e su come lo viviamo.

 

Come vivo il tempo io?

 

Io sono consapevole del tempo che passa quando arriva in studio un mio allievo di 19 anni fa.

Sono consapevole del tempo che passa quando scopro che i figli dei miei amici sono diventati dei piccoli adulti.

Sono consapevole del tempo che passa quando mi sveglio piena di dolori.

Sono consapevole del tempo che passa quando sento la campana della chiesa.

Quando capisco che è assurdo che i miei 20 anni fossero totalmente privi di internet.

Quando osservo la mia folta collezione di cicatrici.

Quando sorrido di fronte ai capelli bianchi della mia amica di sempre.

Quando mi rendo conto che siamo già a luglio.

Sono consapevole del tempo che passa?

No. Non proprio.

In effetti vivo nella convinzione di essere sempre la stessa, quella di 20, forse anche 30 anni fa.

Ogni tanto incontro la mia immagine nello specchio e mi sorprendo a pensare: “chi cavolo è quella?”

Forse solo in scena sono davvero consapevole del tempo che passa.

Su un palco, dannata e amata scena del crimine, unico luogo in cui riesco davvero ad essere me stessa. Lì sì che so quanto dura un minuto.

 

Nel quotidiano sono una disadattata, un’insicura cronica, una traumatizzata, una complessata, una sopravvissuta che vaga tra la gente.

Perennemente fuori luogo. Incapace di farsi riconoscere dai suoi simili, ma con un innato talento nel riconoscerli.

Sono irriconoscente, viziata e senza alcun rispetto per il mio corpo.

 

Senza centro, persa.

 

Ma in scena no, in scena riesco a comunicare. Sono centrata.

Sono rispettosa del pubblico, dello spazio, dei corpi, della mia essenza, della collettività.

Mi muovo sicura. Mi sento a casa, protetta. A volte addirittura utile.

In scena la possibilità di denudarmi di tutto mi rassicura.

Come mi rassicura sapere esattamente quando arriverà la fine.

 

Il tempo passa e io scrivo.

Il tempo passa ma le mie mani sudate restano.

Il tempo passa e noi ricordiamo la nostra vita in modo selettivo. Tramite gli eventi che scegliamo di mantenere vivi nella memoria. O tramite le immagini e le parole che qualcun altro ha deciso di imprimere nella nostra memoria.

 

In questi giorni di riflessione sul tempo cerco di attivare pratiche per riattivare il ricordo di eventi e circostanze, private o collettive, che sembriamo aver dimenticato. Indago sulla memoria dei corpi.

Tra una lezione e l’altra, quando possibile, partecipo a quelle dei colleghi.

Ho partecipato al workshop di Emilio Fantin, artista che indaga il mondo dei sogni e dell’inconscio.

Ascoltandolo ho ritrovato molti punti di interesse comune. Resta incredibilmente affascinante come, pur percorrendo strade a volte diametralmente opposte, si riesca ad arrivare alle stesse conclusioni.

 

Si è parlato di relazione tra coscienza e percezione fisica, di ricerca sulla sottrazione, di creare spazio fertile per un’immaginazione attiva…

Ho ritrovato temi a me cari e centrali un po’ in tutta la ricerca contemporanea.

In questi giorni sento crescere in me la percezione di quanto sia importante la condivisione. Di come sia qualcosa di vitale per tutti gli esseri umani.

Ammiro la città da lontano, dal mare, sfidando il vento e le onde, sono invasa da una bellezza che toglie il fiato e subito penso alle mie figlie e a quanto vorrei fossero qui con me.

Partecipo a un progetto di studio e ogni giorno sono grata alla possibilità di crescita, ai nuovi quesiti e alle conferme che nascono dalla condivisione con gli altri.

Insegno e vedo ragazzi felici di viaggiare per venire qui e condividere un momento di studio.

Seguo il workshop di un collega e resto piacevolmente stupita da come lo spazio di condivisione riesca ‘magicamente’ ad aprire la porta della memoria e della consapevolezza personale.

 

Per non parlare di quando soffro e di come il dolore sia sopportabile solo grazie all’empatia e alla vicinanza di chi mi è caro.

Condividere ci rende più ricchi, più forti, meno soli e anche più fieri.

 

Diventa sempre più assurda, per me, la voglia che alcuni ancora hanno di chiudersi, di tenersi strette le proprie piccole conquiste, di proporsi come maestri assoluti di qualcosa, come risolutori. Diventano sempre più importanti e necessari per me l’incontro e la partecipazione, per non perdere di vista ciò che importa, per non dimenticare la bellezza, per utilizzare al meglio e in modo utile il nostro sapere, per cercare di restare umani.

 

 

Leave a Comment