Se il Tribunale consegna il bimbo all’orco

Mamma e figlio entrambi vittime di violenza da parte dell’orco a cui il Tribunale dei minori di Lecce ha affidato il bimbo. La denuncia su Forum Mediterraneo, la mia nuova rubrica su Radio Radicale

di Marilù Mastrogiovanni

Una mamma e il suo bimbo, entrambi vittime di violenza da parte dell’uomo che avrebbe dovuto amarli e proteggerli da ogni pericolo. Una giustizia ingiusta: il Tribunale dei minori di Lecce, presidente Lucia Rabboni, che decide che il bimbo sarà prelevato (o deportato?) dai Carabinieri, tolto alla madre, per chiuderlo in una casa famiglia col padre violento. Non è ancora successo: ma è stato deciso per decreto del presidente del Tribunale dei minori. Da oggi, in qualunque momento del giorno e della notte, i Carabinieri potrebbero suonare a quella porta e prendere con la forza il bambino, che dovrà vivere con l’orco tra le quattro mura di una casa famiglia. Perché accade questo?

Il principio della “bigenitorialità” è travisato. La lentezza dei processi penali fa il resto: il processo per le violenze su mamma e figlio ancora non è arrivato al primo grado di giudizio, ma le violenze sono accertate da perizie e testimonianze, anche degli stessi Carabinieri. In attesa di una giustizia lenta, la giustizia ingiusta partorisce un obbrobrio. Mi rifiuto di stare a guardare.

L’ho denunciato su Radio Radicale, nella mia rubrica “ForumMediterraneo”.

Chiedo ai colleghi delle testate locali, regionali, nazionali di riprendere la notizia, di salvare la vita a due vittime di violenza che rischiano che la loro vita sia stravolta e rovinata per sempre.

Ecco che cosa ne pensano:

Milli Virgilioavvocata esperta in diritti delle donne e presidente dell’associazione Giudit, Giuriste d’Italia e componente dello staff di avvocate di REAMA, la Rete per l’Empowerment e l’Auto Mutuo Aiuto delle donne, che nasce dall’impegno della Fondazione Pangea;

Maria Luisa Toto,  presidente del Centro Antiviolenza Renata Fonte di Lecce;

Caterina Rizzelli, avvocata familiarista.

Bentrovate e bentrovati a Forum Mediterraneo, io sono Marilù Mastrogiovanni e questa è la rubrica di Radio Radicale che prova a decolonizzare l’ informazione.

Oggi sono qui con me Milli Virgilio, buonasera Milli, avvocata esperta in diritti delle donne e presidente dell’associazione Giudit, Giuriste d’Italia (poi ci spiegherà che cosa fanno le amiche di Giudit) e componente dello staff di avvocate di REAMA, la Rete per l’Empowerment e l’Auto Mutuo Aiuto delle donne, che nasce dall’impegno della Fondazione Pangea.

Abbiamo anche Maria Luisa Toto, buonasera Maria Luisa, presidente del Centro Antiviolenza Renata Fonte di Lecce. Il centro è una realtà attivissima e direi imprescindibile per le donne del sud soprattutto, perché nella mappatura del numero verde nazionale 1522 (il numero verde contro la violenza nei confronti delle donne, istituito nel 2006 dal dipartimento Pari opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri)  Maria Luisa Toto con il suo centro antiviolenza Renata Fonte in vent’anni di attività ha assistito ben 6.338 donne, vittime di violenza.

Immagino, Maria Luisa, tutte sulla tua pelle, sul tuo cuore…

(Maria Luisa Toto) Sul mio cuore soprattutto.

Ed è con noi anche Caterina Rizzelli, avvocata familiarista. Buona sera Caterina.

(Caterina Rizzelli) Buonasera a tutti.

Ecco, con Forum Mediterraneo, sapete, proviamo a decolonizzare l’informazione. Partiamo dalla periferia che diventa centro, oggi, per mezz’ora, e io voglio partire da questo capo d’imputazione, perché le parole della legge, le parole dei tribunali, sono importanti per capire i fenomeni. Parlo di un uomo, imputato, rinviato a giudizio perché “maltrattava la convivente con continue manifestazioni di violenza fisica e psicologica – lo scrive il PM –, offendendo ed umiliandola con epiteti quali zoccola, puttana, minacciandola reiteratamente e picchiandola abitualmente, tirandole i capelli, strattonandola, colpendola con schiaffi e pugni, sì da cagionarle in diverse occasioni lezioni, consistite in ematomi ed escoriazioni mai refertate, ma constatate dai familiari della donna, giungendo in alcune occasioni a spingerla fuori dall’autovettura in movimento, impedendole altresì di avere rapporti sociali e perfino relazioni con la sua famiglia di origine, così determinando un sistema di vita basato su continue vessazioni, che inducevano la donna lasciare l’abitazione coniugale e a rifugiarsi presso l’abitazione dei genitori”.

Quest’uomo, da lunedì, forse avrà in affido il bambino conteso, presso una casa famiglia: il bambino verrà tolto alla madre, verrà affidato a questo padre, violento nei confronti della madre e violento anche nei confronti del bambino, perché ci sono altre denunce ed è anche imputato per violenza nei confronti del minore.

Io voglio partire da questa storia, che spero si concluda bene, perché lunedì spero che non si dia esecuzione alla decisione di questo giudice del tribunale di Lecce, e con la nostra riflessione voglio partire da Milli Virgilio, e chiederle se la bigenitorialità, il diritto del bambino ad avere affetto da entrambi i genitori, si può poi trasformare in un diritto a tutti i costi dei genitori ad avere a che fare con i figli.

Perché accade questo, Milli Virgilio?

(Milli Virgilio) Premesso che io, del caso, conosco i due provvedimenti, quello del Tribunale dei minorenni di Lecce e quello della Corte d’appello di Lecce, che fanno riferimento appunto al principio di bigenitorialità. Anzi, prospettano la bigenitorialità come diritto, e francamente questo  mi crea una certa perplessità, perché la bigenitorialità, che è un principio che spesso troviamo accampato, e spesso utilizzato anche non certo a favore delle donne, non è un diritto. Perché se ci fosse un diritto alla bigenitorialità, non potrebbero esistere, per esempio, famiglie monogenitoriali, che invece conosciamo; non le vogliamo chiamare famiglie, non le riconosciamo? In verità l’altro passaggio che bisogna assolutamente considerare, e che porta più correttamente a parlare non di diritto ma di principio, è che questo dev’essere visto dal punto di vista del minore. Non esiste un principio di bigenitorialità che possa essere azionato da uno dei due genitori, perché il principio pone al centro il minore, il cosiddetto interesse del minore, che in materia minorile è spesso accampato come nodale, come principio risolutore dei conflitti tra padre e madre. Bene, la cosa importante è che si parta dal punto di vista del minore, e questo principio, per esempio, si esprime anche con l’ascolto del minore, ha anche una sua tradizione pratica, però ripeto: non dobbiamo parlare di diritto, e men che meno vederlo dal punto di vista dei genitori. Questo credo che sia uno snodo importante, un chiarimento che ci può aiutare anche poi a prendere delle posizioni in merito alle singole situazioni concrete. Però astrattamente, sul piano normativo, non c’è un diritto alla bi genitorialità: è solo un principio orientativo, un principio che deve aiutare a risolvere conflitti, ma prendendo in considerazione l’interesse del minore, dev’essere visto dal punto di vista del minore e non dal punto di vista del minore. Questo, secondo me, è centrale.

La Suprema Corte si è espressa retta recentemente, affermando il principio di bi genitorialità. Qual è la differenza, se c’è una differenza, nell’ordinamento giudiziario italiano rispetto al resto d’Europa? Com’è trattato questo principio nel resto d’Europa?

(Milli Virgilio) Non ci sono delle differenze particolari, è il conflitto fra uomo e donna che è comunque in tensione in tutti i Paesi. Poi possiamo andare anche fuori d’Europa, perché qui dobbiamo fare riferimento anche a convenzioni internazionali. La base è tuttora la Convenzione ONU a tutela dei diritti del fanciullo, che è del 1989 e resta il principio cardine che viene interpretato come riferito alla bigenitorialità e che però non usa questa espressione, anche se parla ovviamente di entrambi i genitori. Però il principio è in tensione, evidentemente, non possiamo non considerare che ci sono istanze dei movimenti femminili, che ci sono le associazioni dei padri separati che esercitano una loro presa di parola molto forte, molto ben accompagnata dai media, quindi questo problema si pone un po’ in tutti I Paesi, perché l’autonomia e le libertà femminili si stanno esercitando e sono in conflitto palese con alcune istanze di tipo più patriarcale. Questo è un problema che si presenta ovunque, non ci sono disfunzioni normative: ci sono delle prese di posizione giurisprudenziali, ci sono delle prese di posizione dei cosiddetti esperti delle materie, che poi spesso e volentieri sono anche uomini, e che sono gli psicologi che si occupano di questa materia, in genere bigenitorialità sindrome di alienazione parentale, la cosiddetta PAS, oppure anche non il disturbo, ma l’alienazione parentale, vanno spesso di pari passo. È una cultura purtroppo piuttosto diffusa, e in alcuni casi è stata anche recepita da qualche tribunale, ma per fortuna abbiamo anche la Cassazione, che ci dice che bisogna trovare invece un componimento nel nome dell’interesse del minore, e che non ha assolutamente sposato queste tesi.

Maria Luisa Toto, lei si scontra quotidianamente con la cultura patriarcale di cui ha parlato poc’anzi Milli, e ha seguito il caso di questa mamma, vittima di violenza. Come è potuto accadere che si sia arrivati, dopo tante denunce, e io devo dire in tutta onestà di aver letto le denunce di questa giovane mamma, le denunce presentate ai locali comandi dei Carabinieri per violenze, per maltrattamento, per stalking, violenze su di sé e sul bambino… com’è possibile che si sia arrivati, dopo tanti anni, a nessun giudizio e invece ad un decreto da parte di un giudice del tribunale dei minori che impone l’affidamento del bambino ad un padre rinviato per violenza sul bambino e sulla madre?

(Maria Luisa Toto) Sì, è accaduto questo, purtroppo, e come dice Milli, la violenza contro le donne affonda le sue radici nella discriminazione di genere. Lo vediamo tutti gli anni, tutti i giorni, da vent’anni. Conosco questa donna da novembre 2013: è una donna che si è rivolta al Centro, e io non posso dimenticare quella mattina, era distrutta, il bambino era piccolissimo, lei si è rivolta al Centro dopo aver chiamato il numero verde nazionale 1522. L’abbiamo accolta, era con il bambino, e disperata ha iniziato a raccontare delle violenze che lei subiva da parte di questo compagno. Siamo state testimoni quello che è accaduto, che accadeva quella mattina nel nostro Centro: mentre la donna raccontava il suo vissuto, in continuazione il suo cellulare squillava, era lui che la chiamava perché doveva controllarla, c’era un esercizio di potere e di controllo. Vi racconto che lui pretendeva che lei dimostrasse che fosse in casa, che lei non fosse fuori, che lei stesse dentro casa, e le chiedeva per telefono: “Accendi la televisione, devo sentire la televisione; accendi la radio, devo avere la prova che tu sei in casa”. Perché questa donna era costretta a restare chiusa in casa, era costretta a non avere più rapporti con la sua rete familiare e amicale, ha dovuto lasciare il lavoro. Lei era lì con il bambino e chiedeva a me: “Cosa devo fare?”. Le telefonate sono state estenuanti, non solo per la donna, ma anche per noi operatrici che eravamo lì. Lei ha raccontato la storia, una storia fatta di soprusi, di violenze fisiche e psicologiche, di condizionamenti, di isolamento. A quel punto le abbiamo suggerito che non era nelle condizioni di poter e dover rientrare a casa, abbiamo proposto alla donna di restare a casa dei genitori e quando lei ha acconsentito, per paura, a non rientrare a casa quella sera, è stata accompagnata da noi del Centro antiviolenza in Questura, dove ha sporto una prima denuncia, e dove ha dichiarato che quel giorno lei non sarebbe rientrata a casa per paura, ma sarebbe rimasta insieme al bambino in casa dei genitori. Così ha fatto, ma nel pomeriggio ho ricevuto un’altra telefonata, sempre dalla donna, terrorizzata, che mi diceva: “Aiuto, lui è fuori casa dei miei genitori e sta sbattendo sulla porta per entrare”. Sono ulteriormente testimone delle botte, dei pugni che lui dava sulla porta per entrare. Sono stata costretta a chiamare l’intervento dei carabinieri, che si sono portati a casa dei genitori della donna, dove c’era lui: lui era già entrato nel giardino di casa dei genitori. Tutto è negli atti, i carabinieri hanno fatto l’intervento, lo hanno preso, lo hanno portato in caserma, lo hanno accompagnato fuori affinché rientrasse, diffidandolo di ritornare. È una storia, questa, che è iniziata nel novembre 2013, lei ha sporto altre denunce, c’è un processo in atto molto lungo, dovrebbe concludersi nel febbraio 2020, fissazione di udienza per la discussione, un processo per maltrattamento in famiglia. La causa, si dice, di questo rinvio, di queste lungaggin, siano i cambi dei giudici. Non c’è comunicazione, è questo il problema, tra il penale e il civile; ognuno va per proprio conto, quindi il tribunale dei minori ha iniziato un iter che purtroppo si conclude con quei decreti: il bambino sarà costretto, sarà preso attraverso le forze dell’ ordine e accompagnato in maniera coatta in questa casa famiglia, dove sarà collocato, attenzione, con il padre, con la persona della quale questo bambino ha paura, e a questo bambino nessun giudice ha mai chiesto: “Perché hai paura di tuo padre?”. Come centro antiviolenza, noi conosciamo anche determinati episodi, che probabilmente inducono il bambino ad avere così tanto terrore del padre: episodi che ha raccontato la madre e che sono negli atti. Si  parla di diritto alla bi genitorialità, e nel nome di questo diritto ad ogni costo stanno accadendo tutte queste torture, persecuzioni e oppressioni, deportazioni ai danni di un bambino. Il bambino è diventato strumento di lotta.

Ha spiegato l’avvocata Milli Virgilio che la bigenitorialità è un principio, non un diritto dei genitori, è un principio in base al quale poi fare le scelte giuste e garantire un diritto al minore, il diritto ad avere un rapporto sano, affettivo, con entrambi i genitori, se ci sono le condizioni. Chiedo a Caterina Rizzelli, avvocata che segue dal punto di vista civile le vicende, i drammi di questa mamma, di questa giovane mamma, perché a un certo punto lo Stato diventa nemico delle donne, come in questo caso, di fatto, no?

(Caterina Rizzelli) Questo è un caso veramente limite, nel senso che di fatto, prima abbiamo parlato di diritto alla genitorialità: c’è un diritto, che vale per tutti, a non avere un genitore violento. Allora quando c’è il sospetto, il semplice sospetto, poi avallato dalla documentazione di rinvii a giudizio, e anche dalla documentazione sanitaria, che dice che in un episodio (che poi è solo uno nei confronti del minore, ma solo perché dopo il minore non è stato più da solo con il padre) ha subito una violenza, un minore che solo dinanzi al medico dice: “Io ho paura di papà”, perché poi di fatto nel procedimento davanti ai minori nessuno si pone la briga di dire: “Ma perché hai paura di papà?”; viene soltanto osservato, le consulenze che vengono fatte ai minori, all’interno dei di procedimenti minorili, si basano su un’osservazione di pochi minuti, non viene posta la domanda al bambino, questo minore, secondo il tribunale, avrebbe diritto a stare con un padre violento, e qui di fatto noi abbiamo una violenza istituzionale. È una triplice violenza nei confronti della madre, la quale subisce violenza prima dal padre, poi non viene creduta, dopodiché viene considerata responsabile della violenza assistita, a cui ha presenziato il figlio, e dopodiché come ulteriore forma di violenza, la più grave che si possa fare ad una madre, le viene anche strappato il figlio. Allora il caso specifico riguarda un minore che si sa relazionare con tutti, è bravissimo a scuola, è un bambino equilibrato, è un bambino maturo, è un bambino che sa porre i rifiuti e sa accettare le cose, è un bambino che quindi ha una possibilità di giudizio, sa discernere il bene dal male, è un bambino che ha una vita sociale intensa, è un bambino che però ha un piccolo neo: ogni volta che viene il padre, rifiuta di vederlo. Ora, il rifiuto di vedere il padre siccome c’è una madre presente, viene letto come una forma di influenza della madre, della figura genitoriale materna sul figlio, che non è in grado di dire al figlio, anche con violenza, “tu devi stare con tuo padre”. Allora ecco che qui c’è veramente una violenza istituzionale nei confronti di un minore. Arrivare, poi, a chiudere un bambino, perché di fatto o si chiude o si deporta un bambino, quando pone un netto rifiuto, in una casa famiglia, alla presenza del padre, l’orco, quello che lui vede come la persona che più gli fa paura durante la vita; gli stessi consulenti, nell’ambito del processo minorile, mi dicono che il bambino soffre di ansia di separazione dalla madre, e noi che facciamo? Lo chiudiamo con un padre in una casa famiglia, secondo una modalità di cui non è dato capire come, quando, per quanto tempo, durante un periodo che ancora scolastico, perché il bambino frequenta la scuola dell’obbligo: secondo me è una forma di violenza che si perpetua su un minore, per il semplice fatto che lui pone un netto rifiuto a vedere il padre. Nessuno ha mai investigato, com’era giusto che si facesse, per capire se, magari, quel netto rifiuto era dovuto al fatto che il bambino, avendo assistito a degli episodi di violenza nei confronti della madre, essendo egli stato per sé stesso, in prima persona, vittima di violenza da parte del padre, non ponga invece un rifiuto perché ha paura. Allora dinanzi ad un netto rifiuto del minore a vedere il padre, nessuno si è mai posto il problema se il bambino ha paura del padre. Come si supera la paura? Mettendolo con il padre in una casa famiglia? Secondo me, qui si è arrivati proprio all’apoteosi del diritto, anche perché non c’è stata, come ha detto prima l’avvocata Toto, una comunicazione tra i giudici che si sono occupati del caso penalmente, quelli che se ne sono occupati nel tribunale civile di Lecce, in cui si stabiliva che il bambino, piano piano, visto che non aveva una madre alienante, ristabilisse, alla presenza dei servizi sociali, i rapporti con il padre ma in maniera graduale, e quelli invece del tribunale dei minorenni, che laddove dice che il bambino continua a porre un rifiuto nei confronti del padre, debba essere chiuso in una casa famiglia. Di fatto ci troviamo davanti a questa situazione, che, superata la giornata di lunedì prossimo, laddove il bambino non entrerà spontaneamente all’ interno di una casa famiglia, e io personalmente sono stata testimone del rifiuto e del malessere che il bambino ha provato, nel momento in cui è stato accompagnato in questa casa famiglia per incontrare il padre, alla vista del padre il bambino ha iniziato a esprimere la sua rabbia, la sua paura, a gridare, a mettere gli occhi al cielo, e a calmarsi solo quando è stato rassicurato del fatto che sarebbe stato portato via, dinanzi a dei consulenti che mi dicono che eventualmente, nel caso in cui il bambino dovesse continuare nel rifiuto della figura genitoriale paterna, dovrebbe entrare in questa struttura con la madre, anche i consulenti si esprimono nella stessa maniera, anche il curatore si esprime nella stessa maniera, di fatto noi ci troviamo invece un provvedimento che sostiene che l’ingresso del bambino in questa struttura debba avvenire con il padre. Ma ci immaginiamo noi, se il bambino sfugge al controllo degli operatori sociali? E di notte, quando il bambino sarà da solo con il padre, gli operatori sociali ci sono? Ci saranno gli psicologi in queste case famiglia? Alla domanda che io ho fatto alla responsabile della casa famiglia, mi è stato detto che gli psicologi ci saranno durante le ore di lavoro: quindi di fatto il bambino viene portato in una casa famiglia, a stare con un padre che si presume sia violento, sulla base dei dati di fatto, non sulla base di teorie, anche perché non c’è ancora un giudizio, ma non è colpa della signora se poi i processi durano più di quello che… La prima a volere una sentenza definitiva sul danno che essa stessa ha subìto è proprio la vittima del reato. Se però i giudici del Tribunale penale non sono veloci, non sono celeri, se poi i processi si rifanno perché cambia il giudice, quindi devono essere rifatti ex novo, non è certo una responsabilità della parte. la domanda che io faccio è questa: dinanzi alle donne che vengono negli studi di noi legali, che hanno figli migliori, e che dicono “Vogliamo denunciare”, che consiglio dovrò dare io da domani? Denuncia, però attenta, perché rischi di perdere tuo figlio, perché se il processo non si definisce subito, e se qualcuno va a dire che la denuncia che tu hai fatto è una denuncia per tenere lontano il bambino dal padre, e poi se il bambino rifiuta il padre, la colpa è tua, e rischi di togliere il bambino, a quel punto io non sarò più così convinta a dire a una signora, che è vittima di violenza, denuncia.

Il bambino viene stritolato da questo sistema, rimane stritolato due volte. La giudice che ha preso la decisione di deportare il bambino in questa casa famiglia è la presidente del tribunale dei minori Lucia Rabboni, che scrive anche un passaggio inquietante perché (e chiedo l’opinione di Milli Virgilio) giustifica, o meglio utilizza, il fatto che la madre si debba assentare alcuni giorni per lavoro, un lavoro che la porta lontano rispetto al luogo della residenza, per giustificare la decisione di affidare il figlio al padre. Quindi io vedo, ma chiedo all’avvocata Milli Virgilio che cosa ne pensa, io vedo una sorta di colpevolizzazione della mamma che lavora.

(Milli Virgilio) Io il caso, sinceramente non lo conosco. Ripeto: ho letto solo questi due provvedimenti, che sono del Tribunale dei minorenni di Lecce, confermati però dalla Corte d’Appello di Lecce. La cosa che mi ha più colpito, al di là del lavoro di questa madre, è che nella parte risolutiva del provvedimento si parli di diade padre-minore e si teorizzi proprio il concetto di distacco dalla madre, per poi parlare di “eventuale ricongiungimento alla madre”. Il ricongiungimento è “eventuale”. Io non riesco a capire poi quale possa essere l’applicazione di un provvedimento in cui la diade padre-figlio viene portata in una comunità, e in cui la madre non ci sia, ma la madre è quella che lo ha cresciuto fino ad oggi. Questo distacco, è proprio usata la parola “distacco”, mi sembra qualche cosa che vede una figura, e anche un provvedimento, devo dire non comuni, perché sostanzialmente, a fronte di quella che è la conflittualità per cui entrambi chiedono l’affidamento, su temi in cui la regola oggi è quella dell’affidamento condiviso, viene dato un affidamento al padre, escludendo la madre e anzi, entrambi, padre e figlio vanno in comunità. È un provvedimento singolare, sotto questo profilo, che usa un linguaggio molto di taglio. La cosa che crea la maggiore perplessità è che viene prospettata come una sorta di chiusura rispetto alla madre, quindi anche la praticabilità di un provvedimento di questo genere la trovo complessa. Però ripeto: io il caso non lo conosco, quindi ragiono su quello che leggo dal solo provvedimento, lì bisognerebbe anche, ma qui la parola sarà all’avvocata che segue la causa, consultare le varie consulente, perché sembra essere anche una vicenda che si protrae da lungo tempo.

Certo. La parola “distacco” colpisce tantissimo, la sensazione è che ci si trovi davvero in una “era Pillon”, mi viene da dire, dove non viene nominata la parola alienazione, ma viene teorizzata nei fatti, nelle decisioni, si accusa la mamma di manipolare il figlio e di indurlo a essere separato  dal padre.

(Milli Virgilio) Beh qui la parola usata non è “manipolazione”, la parola usata è “condizionamento”. Però il provvedimento parla di condizionamento da parte di entrambi, dal provvedimento sembrerebbe di desumere che entrambi i genitori condizionano, e quindi si presenta anche una sorta di parità dei condizionamenti, diventa ancora più difficile concepire un distacco dalla madre, inteso come tale.

Davvero una situazione complessa, non mancheremo di tenervi aggiornati. Intanto io ringrazio Milli Virgilio, Maria Luisa Toto e Caterina Rizzelli per essere state qui con noi a Forum Mediterraneo. Io sono Marilù Mastrogiovanni e ringrazio tutte voi. Arrivederci alla prossima puntata

 

Leggi anche: 

Io voglio bene a mio papà

Il bimbo di 7 anni tolto dalla madre e portato in Questura

“Non denunciate la violenza, sennò vi tolgono i figli”, l’urlo di dolore di una mamma

2 Thoughts to “Se il Tribunale consegna il bimbo all’orco”

  1. Rita

    Brividi. Questa è in linea generale la mia storia. In mezzo c’è una famiglia potente, due figli pre/adolescenti, la voglia di vendicarsi per la richiesta di separazione anche a causa di violenza domestica e assistita, c’è una parente madre mancata e con competenze tali da mettere in atto una ben organizzata e micidiale alienazione parentale. Innocente, senza prove, né condanne ma con false accuse ho subito 42 mesi fa l’allontanamento dei miei figli. Sono disposta a raccontare la mia storia.

  2. Questi sono purtroppo i disastri combinati da professionisti incompetenti, che ancora utilizzano nelle CTU concetti privi di validtà scentifica, come quelli di PAS e alienazione parentale, dichiarati tali dal ministro della salute nel 2012. Finché i giudici minorili e delle separazioni non comprenderanno che i consulenti di loro fiducia sono degli incompetenti, continueremo ad assistere a questi orrori. L’avv. statunitense Barry Goldstein chiarisce molto bene la questione in questo post: https://stopabusecampaign.org/campaigns/custody-court-crisis/
    Dr Andrea Mazzeo

Leave a Comment