Il teatro, un Paese a sé

di Barbara Toma

Se non dovessi tornare

sappiate che non sono mai partito,

il mio viaggiare

è stato tutto un restare

qua, dove non fui mai.

G. Caproni

Fin da piccola, la mia vita è andata di pari passo con un profondo senso di spaesamento. A casa, a scuola, con gli amici, in Italia o in Olanda, ovunque mi trovassi mi sono sempre sentita fuori luogo. Tanto da farmene una ragione e accettare quella sensazione come parte integrante della vita. Non siamo forse tutti fuori luogo?

Anche studiando danza, sebbene sentissi di trovarmi al posto giusto, per gran parte della mia vita da studente ho dovuto combattere contro l’idea che io non meritassi di essere li. D’altronde, non ho mai avuto chissà che talento. Solo tanta, tanta tenacia. E la faccia tosta di andare contro i pareri di insegnanti e commissioni.

Era difficile fermarmi, avevo intuito la mia strada, la strada verso casa.

Sì, perché l’unico posto dove, ancora oggi, sento di non essere fuori luogo e non ho paura di essere me stessa, l’ho già detto, è il teatro. Solo lì, che io sia spettatrice, protagonista sotto i riflettori o dietro le quinte, sono me stessa, sono a casa.

Per tutto il resto del tempo, nella vita ‘reale’, sono un personaggio in cerca di autore, sono una spettatrice silenziosa che ruba idee e prende ispirazione dalla vita, oppure una bambina insicura che fa rumore per attirare l’attenzione e vincere la paura. Sempre altro da me. Mi sento grigia, anonima, mi muovo con difficoltà.

Come tanti, mi nascondo dietro ruoli stereotipati e totalizzanti, ora sono la mamma, anzi no, sono la mamma single lavoratrice, non ho tempo per ricordarmi il mio disagio, né posso permettermi il lusso di pensare alla mia miseria, devo andare avanti, non posso nemmeno ammalarmi, infatti non succede. Io ho i super poteri delle mamme. Interpreto il ruolo della super eroina che le mie bimbe vedono in me. E, apparentemente, sono al sicuro.

Salvo dover scrivere per vomitare il mio malessere.

Salvo dover fare i conti con i miei disturbi alimentari.

Salvo sentirmi sempre amputata.

Da quando vivo qui, in questa piccola città di provincia nel profondo sud, il mio disagio sembra aver preso il sopravvento, è cresciuto a dismisura, assumendo dimensioni terrificanti. A volte non riesco a vedere oltre.

La confusione delle grandi città mi ha sempre regalato la possibilità di sparire, il lusso dell’anonimato, potersi confondere nella mischia e osservare gli altri son sempre stati di grande aiuto. Così come fare carriera e raggiungere degli obbiettivi in città importanti, dove nessuno mi conosceva, riuscivano a placare la mia dannata insicurezza.

Qui invece è tutto l’inverso: senza aver alcun merito, se non quello di essere nata qui, vengo riconosciuta per strada, al supermercato, al parco giochi… E sentirmi chiamare per nome anche dal sindaco, sapere di avere una storia, mi terrorizza, mi pietrifica. Aumenta in modo esponenziale il mio smarrimento e mi spinge a cercare l’anonimato nascondendomi, in casa, in campagna, nelle periferie, in piccole sale poco frequentate.

Fingo di non essere qui e vado avanti.

Io amo vivere al centro di ciò che accade, respirare fermento, andare a teatro, vedere mostre, nutrirmi di cultura, vivere in luoghi in cui poter uscire da sola e incontrare sempre nuove facce, scoprire nuove storie… Io amo la meritocrazia e le grandi sfide, non capisco la logica della provincia.

In realtà ero qui solo di passaggio, volevo prendermi una pausa da tutto e godermi questo posto.

Ma, come dice John Lennon, la vita è ciò che ti capita mentre sei tutto intento a fare altri progetti.

E allora eccomi qui, con una figlia in più e un cuore ancora più ammaccato, ad interpretare un film che non sempre sembra essere il mio.

Così, spesso, ahimè, mi ritrovo a dar la colpa dei miei fallimenti e delle mie insoddisfazioni a questo luogo. Dimenticandomi di non essere mai stata a casa in nessun posto, dimenticandomi di sapere già molto bene dove potermi sentire sempre a mio agio, dimenticandomi che non sono i luoghi a cambiare noi ma viceversa.

A volte abbiamo bisogno di riconoscere i nostri sentimenti nelle parole scandite da altri.

E allora tutto appare magicamente più semplice e chiaro.

Ed è proprio ciò che è successo a me mercoledì scorso. Era il 27 marzo e, come in tutti i teatri del mondo, anche al teatro Paisiello di Lecce lo spettacolo in programma è stato preceduto dal messaggio per celebrare la giornata internazionale del teatro.

Dalle casse risuonava il pensiero del regista cubano Carlos Celdrán: ammetto che non sapevo nemmeno chi fosse questo grande regista ma, giuro, non lo scorderò facilmente.

Le sue parole mi hanno illuminato e hanno incredibilmente restituito senso al mio agire. La vita continua a distrarmi, ma io devo creare! Che è l’incontro con lo spettatore che mi permette di smettere di essere me stessa, di soffrire per me stessa, e di riuscire a rinascere.

“Quando ho capito che il teatro era un Paese in sé, un grande territorio che copre il mondo intero, è sorta in me una determinazione, che è stata anche il compimento di una libertà: non devi andare lontano o spostarti da dove sei, non devi correre o muoverti. Il pubblico c’è ovunque tu esisti. Là, fuori da casa tua, c’è la realtà quotidiana opaca e impenetrabile.

Lavorerai, quindi, da quell’apparente immobilità. Il tuo viaggio è verso l’istante, verso l’incontro irripetibile con i tuoi simili. Tu viaggi dentro di loro, nelle loro emozioni, nei loro ricordi che risvegli e metti in moto. Il tuo viaggio è vertiginoso e nessuno può misurarlo o metterlo a tacere. Né qualcuno può riconoscerlo nella giusta misura. È un viaggio attraverso l’immaginazione della tua gente, un seme che viene seminato nelle terre più remote: la coscienza civica, etica e umana dei tuoi spettatori.

Perciò, non mi muovo, rimango a casa, con i miei cari, in una quiete apparente, lavorando giorno e notte, perché ho il segreto della velocità”.

 Carlos Celdrán, Cuba

One Thought to “Il teatro, un Paese a sé”

  1. Ilaria

    Sempre bello leggerti e, spero presto, vederti nel luogo franco dietro il sipario.
    Ilaria
    P. S. John Lennon citava Oscar Wilde.

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