L’impero rosso

Attraverso un viaggio di oltre tre anni in tutto il mondo, dai campi cinesi alle fabbriche italiane, dai mercati del Ghana ai salotti parigini, il giornalista Jean-Baptiste Malet, apre le porte di un mondo opaco – quello dell’industria del pomodoro – in cui anche le mafie italiane (‘ndrangheta, sacra corona unita, cosa nostra e camorra) sono pienamente coinvolte.

Fonte: https://www.francetvinfo.fr/replay-radio/l-interview-eco/lempire-de-lor-rouge-une-enquete-exceptionnelle-dans-lunivers-de-la-tomate-d-industrie_3105469.html

Versione italiana a cura della Redazione del Tacco d’Italia (foto d’apertura: Expo2015.org)

L’impero dell’oro rosso

Un libro-inchiesta sull’universo dell’industria del pomodoro con cui Jean-Baptiste Malet ha vinto l’“Albert London Prize”. Tra Italia e Cina, dalle organizzazioni criminali organizzate agli scaffali dei supermercati, ecco disvelarsi un mondo senza pietà.

Dagli anni ’60 a oggi la produzione mondiale di pomodori è aumentata di sei volte. Onnipresente, dalle pizze ai cibi in scatola fino alle conserve, la sua industria è diventata un enorme business.

Jean-Baptiste Malet (photo credits: humanite.fr)

“Non ce ne accorgiamo più perché è integrato nella nostra vita quotidiana. Ingrediente essenziale del junk food e della dieta mediterranea, il pomodoro supera le divisioni culturali e alimentari e non è soggetto a nessun divieto. Le ‘civiltà del grano, del riso e del mais’, concetto coniato dallo storico Fernand Braudel, hanno ormai lasciato il posto alla stessa civiltà dei ‘pomodori’”, scrive Malet.

“Tutti lo mangiano, ma nessuno lo ha mai visto”

Il giornalista descrive il paradosso del pomodoro: “tutti lo mangiano ma nessuno lo ha mai visto. La sua pelle è molto più spessa di quella che vediamo nei mercati, nei nostri mercati; l’obiettivo è di trasformarlo”. Solitamente diventa un concentrato, conservato in barili, esportato in tutto il mondo, per pizze surgelate, salse, zuppe, ecc. Ma da dove viene il pomodoro delle nostre pizze? “È molto difficile dirlo” afferma Malet, perché “l’etichettatura non è abbastanza precisa. Quando si consuma il ketchup, per esempio, è praticamente impossibile per il consumatore sapere da dove arriva quel concentrato di pomodoro (…) Gli standard di etichettatura dovrebbero essere rafforzati”.

In questa geopolitica agroalimentare, la Cina è uno dei principali attori: oggi è il primo esportatore mondiale di concentrato di pomodoro. In meno di trent’anni è diventato “il principale concorrente degli Italiani, soprattutto nei mercati africani”. Ma questa globalizzazione dei pomodori va di pari passo con una grande confusione. Il prodotto è spesso tagliato, alterato: “Se prendiamo il ketchup, per esempio – spiega Malet – c’è ben poco pomodoro. Troveremo acqua, aceto, spezie. Il peggio accade in Africa occidentale, dove i Cinesi, per competere con gli Italiani, lo tagliano con amido, fibra di soia, coloranti e additivi che non sono dichiarati sull’etichetta”.

“Per vendere i suoi stock, la Cina compra fabbriche in tutto il mondo. In questo può contare anche sull’aiuto dell’Italia, il ‘paese del pomodoro’, per vendere le sue scorte sul mercato mondiale con – come bonus – un’immagine di qualità. Per fare ciò, basta approfittare della politica doganale europea. La logica di questa legislazione è semplice: un industriale Ue, che importa materie prime dall’Asia per la fabbricazione dei suoi prodotti, è esente da dazi doganali sulle materie prime se esporta fuori dall’Ue i prodotti per i quali è stata utilizzata la materia prima. Questo sistema doganale, se aiuta l’industriale migliorando la sua competitività, indebolisce d’altra parte le società europee che potrebbero produrre le stesse materie prime: il loro concorrente asiatico è ormai in grado di sfidarle, senza barriere doganali, sui loro propri mercati”.

“È così che l’Europa, oltre a creare dumping economico tra i suoi agricoltori e quelli del resto del mondo, consente all’Italia di esportare prodotti di pomodoro cinesi in tutto il mondo. Ufficialmente, nel 2015, 90.000 tonnellate di concentrato estero sono arrivate nel sud Italia per essere modificate ed esportate, in particolare in Medio Oriente e Africa. E 107.000 tonnellate, secondo la normale procedura doganale, sono state inviate sul mercato europeo. Scatole che possono vantare con orgoglio l’etichetta ‘Made in Italy’, ma che non menzionano la loro origine cinese. Un’operazione che serve molto bene anche il sistema mafioso italiano con i sodalizi criminali del Sud (camorra, cosa nostra, ndrangheta e sacra corona unita) che trovano nell’agrobusiness un modo perfetto per riciclare denaro: il fatturato delle attività di mafia nell’agricoltura italiana è stato stimato nel 2011 a 12,6 miliardi di euro. In confronto, lo stesso anno, Danone faceva 21,14 miliardi in tutto il mondo”, scrive Pepito Gavroche.  

Una “moderna schiavitù controllata dalla mafia”

Dietro questa produzione di massa, le condizioni di lavoro sono spesso terrificanti, specialmente in Italia, come spiega Jean-Baptiste Malet: “Molti migranti che vengono in Italia per sopravvivere, vendono la loro forza lavoro in agricoltura. È il segreto non detto della competitività dell’agricoltura italiana: decine di migliaia di uomini, ogni estate, fanno il raccolto in Puglia, guadagnando dai 20 ai 30 euro al giorno. Dovrebbe essere noto che gli industriali del sud Italia acquistano il pomodoro solo a otto centesimi al chilo, quindi necessariamente, a questo prezzo, i piccoli produttori non hanno altra scelta che assumere migranti e sfruttarli”.

Il giornalista descrive condizioni vicine alla schiavitù. Una “schiavitù moderna”, inquadrata dalla mafia. “Tutti chiudono un occhio – dice indignato -. La distribuzione di massa, industriale… e alla fine, abbiamo sugli scaffali dei nostri supermercati prodotti macchiati dalla schiavitù“.

“Dagli anni ’90, la Cina è massicciamente equipaggiata con impianti di lavorazione del pomodoro di produzione italiana. Nell’industria del pomodoro, l’Italia ha svolto il ruolo di Marco Polo (…). I fornitori di attrezzature da Parma, sono venuti in Cina per aiutare a creare fabbriche, aiutare nella produzione, trasferire tecnologie, know-how, formare personale… Tutto è organizzato dagli Italiani”.

Nella maggior parte dei mercati in Africa, piccole bandiere italiane rivestono scatole di concentrato di pomodoro. Come per le bottiglie “Gino: confezione con richiami tipicamente nostrani di un prodotto che arriva dalla Cina e dalla Mongolia ed è distribuito da un colosso indiano.

L’indagine di Malet, in Italia, è stata pubblicata da Piemme con il titolo di “Rosso Marcio” ma è stata presto ritirata dal mercato a causa di una diffida da parte di un’azienda italiana.

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