Di Barbara Toma
Fila P posto 3
i lunghi applausi finiti
le luci di sala accese
il pubblico, tornato a parlare, già commentando tutto, aveva lasciato il proprio posto per dirigersi verso l’uscita
tutti pronti per la sigaretta, la birra, la cena…
lei no.
Lei, che era fiera delle sue piccole conquiste e delle sue routine,
fiera d’essere sempre sopravvissuta a tutto,
lei che ‘non sono una signora ma una per cui la guerra non è mai finita’
lei che cercava sempre disperatamente di andare oltre, di essere viva
lei
proprio lei
era restata lì
eppure lo sapeva, conosceva bene gli spettacoli di Pippo, era andata a teatro già pronta, preparata a ciò a cui andava incontro…
Lei che si era alzata per prima per battere le mani ed era restata a lungo lì in piedi, unica tra tanti.
Lei, che ogni sera costringeva le figlie a scrivere su un foglietto un ricordo felice della giornata per poi inserirlo nel barattolo della felicità.
Lei che, convinta di poter fabbricare serenità da regalare alle sue bimbe, si metteva d’impegno per creare e organizzare la gioia.
Proprio lei, che di teatro ne aveva mangiato tanto,
era restata lì,
accasciata sulla sua sedia di velluto rosso,
posto 3 fila P.
E ci era restata a lungo.
Fino a che, ultima rimasta in sala, non l’avevano invitata ad uscire.
Per un po’ aveva trovato rifugio in bagno ma, anche ora che era fuori, in strada, tra la folla davanti al teatro, mentre salutava e faceva finta di ascoltare gli altri, in realtà era altrove.
Era ancora lì
al posto 3 della fila P
ancora ferma a quel momento in cui lui l’aveva trafitta con una semplice frase:
non si può rinchiudere la gioia in una scatola
Una sola frase che ora le rimbombava nella testa come un mantra.
Una sola frase capace di buttarla giù dal piedistallo della sua convinzione.
Ora tutto riacquistava un senso,
mentre la sua vita tornava a perderlo.
Non si può rinchiudere la gioia in una scatola.
E lei, che a casa aveva il suo barattolo della felicità, pensò che era dannatamente e dolorosamente vero.
Antonin Artaud diceva che il teatro è quel gesto di libertà nella costrizione del mondo.
L’altro giorno ho visto La Gioia, uno spettacolo di Pippo Delbono.
E, per un attimo, ho assaporato la libertà.

Quella libertà che spesso dimentico e che troppo spesso metto da parte.
Pippo è gemelli, come me, lui non ha mezze misure. È carismatico, forte, spudorato, esagerato, dolorosamente e inspiegabilmente vero. Pippo si impone. Non si può restare indifferenti. Si può solo scegliere se amarlo o odiarlo. Io l’ho sempre amato.
Come amo il teatro e la forza che mi riesce a dare.
Abbiamo necessità di cultura, si. Abbiamo bisogno di andare a teatro, di leggere, di aprire i nostri orizzonti, di porci domande, di intuire fughe verso la libertà.
È questo che continuo a ripetere a me stessa e ai miei allievi: abbuffatevi di cultura.
Per non morire. Per non voler mai morire… Sopratutto, come dice Pippo, per non morire vivendo.

A Lecce abbiamo assistito ad una replica unica e pregna di significati. La prima replica della compagnia senza il loro celebre e immancabile interprete Bobò, l’attore sordomuto e analfabeta che Pippo, tanti anni fa, aveva letteralmente rapito dal manicomio dove era stato rinchiuso per 40 anni. Bobò viveva e lavorava con Pippo ed era diventato famoso a livello internazionale. Aveva una presenza scenica e una poesia davvero uniche e insostituibili. Riusciva a farsi capire e amare dal pubblico nonostante comunicasse solo con suoni simili a quelli di un uccellino.
Era piccolo e minuto, con due occhi dolcissimi e profondi.
E poche settimane fa ha lasciato questa vita.
Ma lo spettacolo deve continuare.
E Pippo e la sua famiglia di attori, nonostante il dolore della perdita, sono andati in scena, rendendoci testimoni e partecipi di un magico rito.
Nello spettacolo lui, come spesso accade nei suoi lavori, si muove tra palco e platea come un essere super partes, in jeans e camicia tra i suoi attori in costumi sgargianti, armato di microfono, solo che stavolta non urla, ma sussurra.
Recita, legge e racconta camminando tra le ‘sue creazioni’: clown felliniani, naufraghi, mostri, amici… E ci fa da cicerone nel suo mondo, fatto di magici intrecci di poesia e vita.
La Gioia è la disperata ricerca di un attimo di poesia, un sorriso, una boccata d’aria nel vuoto che opprime. Una luce tra le sbarre delle nostre gabbie, un sollievo al dolore, un barlume di speranza, un po’ d’amore…
Ma è nell’affascinante pericolo della sua irripetibilità che lo spettacolo dal vivo compie il suo miracolo. E così, l’altra sera, proprio durante questa replica così speciale, e proprio nel momento in cui Pippo si accingeva a dedicare un pezzo a Bobò, è saltata la luce.
Bum!
Un forte rumore, seguito dalla corsa di svariati tecnici verso il backstage.
E ci siamo ritrovati al buio.
‘Questo è sicuramente un suo scherzo, Bobò è qui con noi!’
E, mentre i tecnici combattevano con l’impianto elettrico e i nostri occhi iniziavano pian piano a riconoscere la sua sagoma al buio, Pippo ci ha intrattenuti raccontandoci aneddoti sul suo amato interprete.
Quanta poesia, quanta vita nelle sue parole.
15 minuti di blackout.
Poi lo spettacolo ha ripreso il suo corso fino al finale.
E io sono rimasta lì, ferma, in disequilibrio.
‘Penso ad un teatro che mi faccia rennamorare dei corpi, un teatro che danzi, che parli non solo con le parole, un teatro per i sordi, i ciechi , i non colti. Un teatro di resistenza contro il mondo che sta lentamente, culturalmente morendo.’
Pippo Delbono, Dopo la battaglia, scritti poetico-politici
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